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L’Europa «sarà davvero al sicuro solo se i suoi cieli saranno al sicuro», dotati di sistemi di difesa capaci di intercettare missili, razzi e droni. Uno scudo aereo in piena regola, insomma, sull’esempio dell’israeliano Iron Dome, che ad aprile fece da schermo ai raid iraniani. E da finanziare con risorse comuni dei Ventisette, nonostante su questo punto i governi arrivino, come da copione, divisi. Il progetto, nelle intenzioni dei sostenitori, dovrebbe rappresentare una prima applicazione concreta del proposito di spendere di più e strutturare meglio la sicurezza dell’Ue: tra un mese esatto, digerito il risultato delle elezioni europee, infatti, finirà tra le portate principali sul tavolo dei leader, in occasione del summit che dovrà risolvere il risiko delle nomine e adottare l’agenda strategica con le priorità per il prossimo mandato.

LA STRATEGIA

Il Ppe, il principale partito del centrodestra continentale, ha fatto sua l’idea, come ha detto ieri in un’intervista al Messaggero il presidente Manfred Weber, convinto che «la protezione dagli attacchi missilistici è fondamentale per la nostra sicurezza e non può essere rimandata». A sostegno dell’iniziativa, i popolari hanno schierato due pesi massimi: il premier greco Kyriakos Mitsotakis, da tempo eminenza grigia sull’asse Atene-Bruxelles, e quello polacco Donald Tusk, fresco di ritorno alla guida del governo di Varsavia dopo essere stato tra 2014 e 2019 a capo del Consiglio europeo. In una lettera congiunta inviata alla presidente dell’esecutivo Ue Ursula von der Leyen, i due leader spiegano che «l’Ue ha bisogno di una ricetta audace in grado di mandare un messaggio forte a nemici e alleati: che prendiamo la nostra difesa sul serio e siamo pronti a fare tutto il necessario per colmare debolezze e vulnerabilità». “Whatever it takes”, per l’appunto, si legge nella missiva datata 23 maggio: parole non casuali, che ribadiscono il momento-crocevia e ripropongono la formula, diventata autentico slogan, scelta da Mario Draghi, allora presidente della Bce, ai tempi della crisi dell’Eurozona.

Se l’investimento necessario per fare l’Iron Dome all’europea non è stato ancora quantificato, in attesa della quadra politica, Tusk ha tuttavia presentato il prestito da 300 milioni di euro appena erogato dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) per costruire il primo sistema satellitare polacco di osservazione della Terra come un «passo avanti nella costruzione dello scudo aereo europeo». Il finanziamento è parte della nuova strategia della Bei che dà priorità ai progetti “dual-use”, civile e militare. Mitsotakis e Tusk vedono nello scudo da realizzare con fondi Ue non solo «un progetto-faro per proteggere i nostri cittadini e le nostre forze armate nel caso in cui la deterrenza dovesse fallire», ma anche un segnale chiaro al resto del mondo che corre al riarmo: «L’Ue è una potenza globale il cui potere economico è rafforzato da una capacità militare di autodifesa». Oltre che un’opportunità per «erogare incentivi all’industria militare europea, in modo che sviluppi tecnologie all’avanguardia e diventi leader globale nel settore». Von der Leyen non ha perso tempo a dare la sua benedizione all’iniziativa greco-polacca, segnale che nelle retrovie diplomatiche qualcosa si muove già da tempo.

I VOLENTEROSI

E infatti, il pressing di Atene e Varsavia non arriva dal nulla, ma semmai aggiunge un (significativo) tassello, tirando in ballo per la prima volta i finanziamenti Ue, a un lavoro che si è finora mosso sotto le insegne della “European Sky Shield Initiative” (Essi), evocata da Weber con Il Messaggero. Si tratta di una coalizione di Stati “volenterosi” che oggi conta 22 adesioni (ultima la Polonia; extra-Ue ci sono pure Regno Unito e la neutrale Svizzera), messa in piedi nell’estate di due anni fa dalla Germania e guidata proprio da Berlino con l’obiettivo di acquistare, in maniera coordinata e attraverso appalti congiunti, sistemi di difesa aerea contro rischi di corto, medio e lungo raggio, per distanze che si spingono tra i 15 e gli oltre 50 chilometri. La tentazione di dotare l’Europa di uno scudo simile all’Iron Dome e di modernizzare gli equipaggiamenti già esistenti risale a oltre un decennio fa, quando Israele inaugurò la protezione dei suoi cieli realizzata grazie anche agli aiuti americani, ma solo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha suonato un campanello d’allarme nel Vecchio continente oggi amplificato dai Paesi più esposti, cioè quelli del fianco orientale al confine con la Russia: dalla Polonia alla Finlandia, fino alle repubbliche baltiche. Parigi e Roma, però, sono state finora defilate nell’Essi, di cui non fanno formalmente parte, perché se la Germania sviluppa i Patriot (e compra per i propri arsenali sistemi di difesa Usa e israeliani, come l’Arrow 3), Francia e Italia hanno le loro batterie terra-aria Samp-T. Risolvere il nodo del “cosa” acquistare insieme sarà decisivo per sbloccare (o affossare) lo scudo aereo; e infatti la lettera greco-polacca strizza l’occhiolino all’Eliseo e all’imperativo dell’autonomia strategica Ue proponendo appalti congiunti di strumenti di difesa che siano “made in Europe”. Per questo, secondo Tusk, «lo scudo dev’essere un progetto comune, in grado di eliminare un’incauta competizione tra gli Stati Ue».

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