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In 10 anni appena, tra il 2013 ed il 2023, il potere d’acquisto delle retribuzioni nelle più grandi e solide economie europee è salito in una forbice compresa fra l’1,1% della Francia ed il 5,7% della Germania. Percentuali che non valgono per l’Italia, dove al contrario è calato del 4,5%, assestando il nostro paese fra uno dei peggiori dei 27 Paesi che formano l’Europa.

Sono cifre estrapolate dal “Rapporto Annuale 2024. La situazione del Paese” dell’Istat, che malgrado attesti una crescita dell’economia italiana superiore a quella europea, Francia e Germania comprese, lascia una scia negativa sui bilanci familiari dovuta in massima parte alla scarsa dinamica della produttività e soprattutto di un livello stratosferico di prelievo fiscale.

Come prova, Maurizio Benetti, esperto di fisco e previdenza della “Fondazione Tarantelli”, ha pubblicato i suoi calcoli su “Nuovilavori.it”, dimostrando che qualsiasi aumento contrattuale viene praticamente rosicchiato dall’Irpef, anche al netto del taglio del cuneo contributivo. In pratica, per quelle strane magie di cui il fisco è maestro, 100 euro di aumento del contratto di lavoro diventano 70 netti per uno stipendio lordo di 13mila euro, ma scendono ancora a 62 euro per una retribuzione di 23 mila e sfiorano i 50 euro – ovvero la metà – per una di 30mila, fermando la frenetica corsa al ribasso sulla quarantina euro per chi prende più di 45mila euro lordi.

E questo, a scanso di equivoci, sempre che il taglio del cuneo Irpef sia confermato anche per l’anno prossimo, cosa niente affatto certa visti gli 11 miliardi all’anno necessari, ma che in caso negativo porterebbe in dono tagli ancora più decisi. E dire che, per avere qualche soldo in più in tasca, invece di scatenare la fantasia sarebbe sufficiente “copiare” le aliquote Irpef della Francia: mentre da queste parti fra 28mila a 50mila euro di imponibile l’aliquota è del 35%, seguita da una del 43, al di là del confine fino a 73mila euro l’aliquota unica è del 30%. Mica cotiche.

In casa nostra, la sola contromisura messa in atto è la defiscalizzazione dei premi di risultato e la non tassazione dei social benefit e del welfare aziendale, che non sono certo una consuetudine ma una rarità utilizzata solo dalle grandi aziende.

L’Irpef, questa volta in combutta con Inps e addizionali locali, ritoccherà al ribasso anche il cosiddetto “Bonus Befana”, ovvero i 100 euro attesi nella busta paga di gennaio 2025. Una cifra che al netto di ogni percentuale trattenuta, oscillerà fra 61 e 74 euro netti, ricorda Benetti. Questo perché la cifra è da intendere al lordo, quindi soggetta a contributi previdenziali e ancora una volta in qualche modo “salvata” dal peggio grazie al taglio dello stesso cuneo fiscale di prima, quello incerto eccetera.
Senza girarci troppo intorno, Maurizio Benetti arriva alla conclusione: “L’Irpef produce un vero e proprio taglieggiamento dei risultati contrattuali soprattutto per le categorie medie e alte anche per via del fiscal drag, ovvero l’aumento nominale delle retribuzioni che fa scavalcare gli scaglioni di reddito (non adeguati all’inflazione), facendo scattare le aliquote più alte con una crescita abnorme della progressività sui redditi medi”.

A Roma tutto questo lo sanno, eccome. La prova è il “giurin giurello” del viceministro all’economia Maurizio Leo, che ha più volte garantito l’alleggerimento dell’Irpef per il ceto medio come prossimo passaggio della riforma fiscale. Per farlo dovrà prima rintracciare la quindicina di miliardi per ripetere anche nel 2025 il taglio del cuneo e l’Irpef a tre scaglioni.

Ma è curioso, fa notare qualcuno, che le colpe maggiori ricadano sull’Irpef ignorando del tutto l’Iva, che incide in modo pesante sull’economia e sui bilanci familiari, e per di più senza neanche prendersi il disturbo di prevedere scaglioni.



 

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