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  • È uscito il nuovo rapporto Banking of climate chaos che analizza gli investimenti delle 60 banche più grandi del mondo.
  • Nel 2023, più di 700 miliardi di dollari sono finiti a società che operano nel settore dei combustibili fossili.
  • Tra queste banche, ci sono anche Unicredit e Intesa San Paolo.

Dall’Accordo di Parigi del 2015 a oggi, le 60 maggiori banche private del mondo hanno finanziato il settore dei combustibili fossili (quali carbone, petrolio e gas) con 6.900 miliardi di dollari. Quasi la metà di questi – 3,3 mila miliardi di dollari – sono stati destinati a progetti di espansione dei combustibili fossili. Solo nel 2023, le banche hanno investito 705 miliardi di dollari di finanziamenti ai combustibili fossili, di cui 347 miliardi in progetto di espansione.

Cosa dice il nuovo rapporto Banking on climate chaos

È questo il quadro desolante tracciato dal 15esimo rapporto Banking on climate chaos (Bocc), redatto da Rainforest action network, Indigenous environmental network, Banktrack, Center for energy ecology and development, Oil change international, Reclaim finance, Sierra club, and Urgewald e che analizza ogni anno gli investimenti delle 60 maggiori banche del mondo a oltre 4.200 aziende produttrici di combustibili fossili.

La classifica vede al primo posto l’americana JP Morgan Chase, seguita dalla giapponese Mizuho e dalla Bank of America. Ma non mancano le italiane Intesa San Paolo e Unicredit.

La sede di JP Morgan Chase © Gideon Benari/Flickr

La banca più “fossile” rimane JP Morgan Chase

JP Morgan Chase è il primo finanziatore di combustibili fossili al mondo, con un impegno di 40,8 miliardi di dollari a favore di società di combustibili fossili nel 2023. Sono anche al primo posto nel 2023, mentre Mizuho è balzata al secondo posto nel rapporto sia per il finanziamento dei combustibili fossili (37 miliardi di dollari) sia per il finanziamento dell’espansione dei combustibili fossili (18,8 miliardi). Ma il peggior finanziatore dell’espansione dei combustibili fossili dopo l’Accordo di Parigi è Citibank, che ha erogato 204 miliardi di dollari dal 2016.

Di recente, alcune banche hanno aumentato la loro esposizione al rischio climatico, riducendo le loro – già deboli – politiche. Bank of America, che si colloca al terzo posto nella classifica 2023 dei peggiori finanziatori di combustibili fossili, è un esempio lampante: ha abbandonato le politiche che escludevano le trivellazioni nell’Artico e le centrali termiche a carbone, non ha fissato obiettivi di emissioni assolute a breve termine, e ha abbandonato i “principi dell’Equatore”, una serie di linee guida per la valutazione del rischio sociale e ambientale delle attività finanziarie. Al momento della pubblicazione del rapporto, insomma, è forse la banca che più di altre dimostra la volontà di fare “marcia indietro” sugli impegni climatici.

Carbone e gas, ancora loro

Ma su quali combustibili fossili si concentra il sostegno, diretto e indiretto delle banche? Spicca il carbone, il combustibile fossile più “sporco” di sempre, che ancora assorbe gran parte dei finanziamenti diretti ai fossili: a foraggiarlo sono innanzitutto le banche cinesi (tra le più “sporche”, Agricultural Bank of China e Bank of Communications). Ma c’è anche una manciata di banche europee, per la precisione di Germania, Paesi Bassi, Spagna e Danimarca. Qui c’è una distinzione da fare: perché, mentre diminuiscono i finanziamenti verso il carbone termico (quello usato nelle centrali per generare elettricità), cresce il sostegno al carbone metallurgico (quello usato nelle acciaierie) e alle miniere di estrazione.

Ma la fonte fossile che ha registrato il maggior incremento di impegno finanziario da parte delle banche è sicuramente il gas naturale liquefatto (Gnl): + 120,9 miliardi di dollari, rispetto all’anno scorso, ricevuti in gran parte da Mizuho, MUFG, Santander, RBC, e JPMorgan Chase.

Infine, tra gli altri fossili dannosi per l’ambiente, ci sono le sabbie bituminose, verso le quali sono direzionati gran parte degli aiuti delle banche canadesi, tra cui CIBC, RBC e Scotiabank, mentre Mitsubishi Ufj Financial Group (MUFG) ha impegnato 512 milioni di dollari per le società che effettuano perforazioni in acque profonde offshore e JP Morgan Chase ha finanziato il fracking con 6 miliardi di dollari. Le prime 60 banche per dimensione degli attivi hanno finanziato, senza ritegno, le pratiche dannose per i biomi sensibili: UniCredit ha impegnato 265 milioni di dollari per le aziende coinvolte nelle trivellazioni nell’Artico e Bank of America ha sostenuto le aziende che estraggono petrolio e gas dall’Amazzonia per una somma di 162 milioni di dollari.

Le banche italiane distruggono Amazzonia e Artico

Come anticipato, ci sono anche due banche italiane coinvolte nella corsa ai combustibili fossili: Intesa San Paolo e Unicredit. In generale, nel 2023, i finanziamenti bancari per l’esplorazione e lo sfruttamento di risorse petrolifere e gassifere nell’Artico hanno subito una diminuzione. Ciò nonostante, alcune aziende hanno individuato nuovi giacimenti, incrementando la loro presenza e rilanciando le operazioni di trivellazione, specialmente in Norvegia. Tra le principali beneficiarie di finanziamenti per le attività di trivellazione nell’Artico nel 2023, oltre ad Aker BP, emerge Vår Energi, precedentemente nota come Eni Norge, una controllata dell’Eni.  Nell’arco degli ultimi otto anni (2016-2023), le principali istituzioni finanziarie impegnate negli investimenti verso le aziende attive nel settore dei combustibili fossili nell’Artico includono JP Morgan con 3,6 miliardi di dollari, Citigroup con 3,5 miliardi, Crédit Agricole con 3,3 miliardi e Unicredit con 2,8 miliardi. Tuttavia, considerando solo gli investimenti del 2023, Unicredit si distingue con un finanziamento di 265 milioni di dollari, seguita da Citigroup con 246 milioni e da Intesa Sanpaolo con 210 milioni, confermando così il suo ruolo di primo piano in questa discutibile classifica.

Anche nel caso dell’Amazzonia, oltre ai “soliti noti” (JP Morgan, Citigroup, Bank of America e Deutsche Bank), spiccano i nomi delle nostre istituzioni finanziarie italiane. Unicredit e Intesa Sanpaolo emergono infatti come prominenti investitori nelle multinazionali responsabili della devastazione del bioma amazzonico: nel solo 2023, Unicredit ha destinato quasi 2 milioni di dollari a tali investimenti, mentre nel corso degli ultimi otto anni ha investito 60 milioni. Intesa Sanpaolo ha anch’essa investito 60 milioni negli ultimi otto anni, ma non ci sono dati disponibili per il 2023.

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Il trend delineato dal rapporto Banking of climate chaos © BOCC

Le scappatoie secondo l’analisi di Banking of climate chaos

Diverse istituzioni di credito e finanziarie, come BNP Paribas, Hsbc, Société Générale, Standard Chartered e appunto la “nostra” Intesa Sanpaolo, dichiarano di aver limitato o sospeso i finanziamenti alle società coinvolte nell’estrazione di petrolio e gas in Amazzonia. È una “scappatoia”, poiché la definizione di bioma amazzonico adottato da questa lista di banche è molto più restrittiva rispetto a quella globalmente riconosciuta, per esempio dall’Amazonian Georeferenced Socio-Environmental Information Network (Raisg).

E di scappatoie simili, le banche ne adottano diverse: nonostante, rispetto al 2022, nove banche abbiano aggiunto restrizioni ai finanziamenti fossili, solo 36 istituti di credito su 60 hanno politiche per limitare gas, petrolio o carbone.

Ma solo tre banche, ad esempio, escludono davvero il carbone dai loro investimenti: Unicredit, Banque Postale e Crédit Mutuel.

Altre scappatoie? Molte politiche bancarie che annunciano a parole limitare i finanziamenti alle fossili spesso includono eccezioni per quelle aziende con “piani di transizione credibili”. Una terminologia talmente vaga che lascia la porta aperta a futuri prestiti o sottoscrizioni praticamente a qualsiasi azienda del settore che faccia parte del portafoglio della banca. È il caso di UBS, che finanzia aziende con una “strategia di transizione in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”, senza specifiche più precise. Anche Deutsche Bank e CaixaBank adottano eccezioni di questo tipo.

Il bilancio di Banking of climate chaos è, dunque, molto negativo. Ma c’è qualche luce in fondo al tunnel: ad esempio, l’anno scorso solo la francese Banque Postale, di proprietà statale, era indicata come esempio virtuoso. Quest’anno si aggiunge la Danske Bank, premiata dalle ong per i suoi sforzi nell’eliminazione del fossile dagli investimenti. Inoltre, si riducono le banche disposte a investire in progetti che riguardano l’Amazzonia e l’Artico. Infine, rispetto agli anni scorsi, il 2023 è l’anno con la più bassa quota di finanziamenti ai fossili. E benché questi siano ancora molti, è pur sempre una magra consolazione.

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