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Salvo cataclismi, giovedì 6 giugno la Banca centrale europea ridurrà i tassi di interesse per la prima volta dopo 5 anni. L’ultima riduzione del costo del denaro è infatti del settembre 2019. La serie dei rialzi era iniziata il 27 luglio del 2022, quando i tassi hanno ricominciato a muoversi verso l’alto dopo essere rimasti per 11 anni a quota zero o addirittura negativi. C’era da smaltire il disastro dei mutui subprime che ha portato il sistema finanziario globale sull’orlo del collasso. Un cataclisma scongiurato solo grazie all’azione di governi (leggi tasche dei cittadini) ed autorità monetarie che si sono fatti carico dei debiti e hanno inondato il pianeta di denaro. Il peggio sembra passato ma non ne siamo ancora del tutto fuori.

Tuttavia, nel frattempo, la concomitanza di tantissima liquidità, scossoni della pandemia su domanda e offerta e ricadute della guerra in Ucraina sui costi delle materie prime hanno resuscitato l’inflazione. Che quando è alta diventa l’incubo di ogni banchiere centrale e, in particolare, di quelli della Bce, plasmati sulle visioni della Bundesbank tedesca. Da statuto, la Banca centrale europea ha come assoluta priorità il contrasto all’inflazione, a differenza della Federal Reserve statunitense che pone sullo stesso piano lotta al carovita e sostegno della crescita economica, due obiettivi che purtroppo spesso confliggono tra loro.

Con i prezzi surriscaldati, la Bce è stata costretta a muoversi nonostante l’economia della zona euro non marciasse proprio spedita come un treno. Nel giro di un anno i tassi hanno raggiunto, con una serie di 9 rialzi, il 4,5%. L’ultimo aumento è del settembre 2023. In effetti, l’inflazione scende, nel periodo successivo dal 10 al 2%, sebbene siano infiniti e inconcludenti i dibattiti tra economisti sul perché e il per come ciò sia avvenuto. In assoluto quello attuale non è un livello dei tassi esorbitante, ma, dopo un decennio di “metadone monetario”, l’interruzione è stata brusca, dolorosa per qualcuno, vantaggiosa per altri. Vediamo quindi chi sono i vinti e i vincitori di questo triennio in cui il costo del denaro è velocemente aumentato.

Chi ha vinto – Prima di tutti e più di tutti, le banche. Che in tutta la zona euro, Italia inclusa, hanno fatto una scorpacciata di profitti praticamente senza dover fare nulla. I soci gongolano tra maxi dividendi, azioni in rialzo e programmi di riacquisto di titoli propri. I manager si godono sontuosi bonus e stipendi in crescita (non che fossero mai scesi). Le banche ottengono circa il 60% dei loro ricavi dal cosiddetto margine di interesse, ovvero la differenza tra i tassi che fanno pagare sui prestiti che concedono ad imprese e famiglie e quelli che corrispondono ai depositanti. Quando i tassi della banca centrale aumentano, questo differenziale si amplia.

Gli interessi che chiede la banca salgono istantaneamente, quelli che paga lo fanno molto più lentamente e molto meno (soprattutto in Italia). Non solo l’incremento dei tassi ufficiali, ha anche fatto sì che le banche ottenessero più interessi sugli ingenti fondi che sono depositati presso la stessa Bce. Così, stando seduti a guardare, i profitti sono lievitati. In teoria, qualche beneficio avrebbe dovuto coinvolgere anche chi tiene i soldi in banca. Ma, si capisce, se l’effetto è che gli interessi che paga la banca passano dallo 0,01 allo 0,02%, nessuno se ne accorge. Qualche governo ha tentato di metterci una pezza introducendo una tassa sugli extraprofitti bancari o provando a farlo (Italia) senza riuscirci. Sembrano, d’altronde, poco fondate le osservazioni di chi nota come le banche abbiano invece sofferto quando i tassi erano a zero, costringendo i soci a sottoscrivere aumenti di capitali. Questa lunga fase di tassi bassissimi è stata necessaria proprio a causa di comportamenti sconsiderati e famelici dei sistemi bancari europeo e americano che hanno portato al disastro del 2008.

L’industria energetica fossile è un’altra dei vincitori, seppur indirettamente, di questa situazione. I profitti dei colossi di gas e petrolio sono stati spinti soprattutto dall’impennata dei costi degli idrocarburi, causata dalla guerra in Ucraina e, in minor misura, dalle tensioni in Medio Oriente e da una piccola ripresa della domanda. Tuttavia queste società già dispongono di una mastodontica rete di infrastrutture e impianti. Per produrre di più (entro certi limiti) non hanno bisogno di fare imponenti investimenti che, con il costo del denaro più alto, sarebbero più onerosi. È vero il contrario per le energie rinnovabili che per crescere richiedono investimenti importanti, diventati più costosi con l’aumento dei tassi. Per gli investitori si riduce così la reddittività del settore. Questi due anni hanno segnato una rivincita dei vecchi “fossili” su vento e sole. Lo si può vedere anche dall’andamento dei rispettivi titoli in borsa.

Chi ha perso – Innanzitutto famiglie e aziende che avevano un mutuo o un prestito a tasso variabile (quindi con rata ancorata all’andamento dei tassi) o che hanno dovuto sottoscriverne di nuovi quando il costo del denaro era già salito. Le rate variabili sono infatti cresciute sensibilmente, diverse centinaia di euro al mese e lo hanno fatto molto rapidamente spiazzando chi aveva contratto un prestito variabile. Uno dei più significativi fenomeni di questi tre anni è stato in fondo il trasferimento di ricchezze da debitori a creditori.

Tra i debitori ci sono anche gli Stati, chi più e chi meno. A salire sono anche gli interessi che devono essere pagati sui titoli di Stato di nuova emissione. Indebitarsi, per tutti, costa di più. L’Italia, con un debito intorno al 140% del suo Pil, è uno dei paesi dell’area euro più esposti a questa dinamica. Quando i tassi erano a zero il costo del “servizio al debito” italiano si era ridotto fino a circa 57 miliardi di euro nel 2020 per poi risalire gradualmente sino ai 100 miliardi di euro del 2023.

Benché il metronomo dei tassi internazionali siano le due più grandi banche centrali (Bce e, soprattutto Federal Reserve), le loro decisioni hanno ripercussioni immediate sui paesi di tutto il mondo. Se i tassi salgono negli Usa e/o in Europa, le rispettive valute si rafforzano e i loro asset diventano più redditizi. Il che fa sì che denari prima investiti in paesi in via di sviluppo “tornino a casa”. Il gioco non vale più la candela, se posso guadagnare cifre discrete con un Btp italiano, perché rischiare tanto con un bond colombiano? Ciò impone agli altri paesi di alzare a loro volta i tassi per contenere la fuga di capitali. Sopportando così a loro volta un maggior costo su titoli sovrani e obbligazioni, che per di più, spesso, sono denominati in dollari o euro.

Il rafforzamento della moneta non giova neppure alle nostre aziende esportatrici. I loro prodotti diventano più cari sui mercati esteri e la domanda cala, viceversa quelli dei concorrenti stranieri si deprezzano e diventano più competitivi.

Anche le borse, in teoria, non amano i tassi in aumento. Il denaro in circolazione diminuisce, quindi anche quello da investire in azioni. La crescita rallenta e così i profitti delle aziende. Le azioni non sono altro che diritti su questi profitti: se se ne prevedono meno, il loro valore scende. Eppure dal luglio 2022 ad oggi gli indici sono saliti. L’eurostoxx 50 (include le prime 50 aziende quotate della zona euro) è cresciuto di circa il 30%. La resistenza dei mercati ad una serie di eventi avversi ha stupito in effetti molti osservatori. Di certo hanno contribuito le performance delle società vincitrici citate all’inizio, banche e compagnie petrolifere, che incidono molto sui listini. Inoltre i buoni risultati dei giganti della tecnologia (con nuove opportunità apertesi nel settore) insieme ai produttori di armi e alle aziende farmaceutiche, hanno contribuito a spingere le quotazioni.

Il fattore inflazione – La discesa dell’inflazione rafforza alcune delle tendenze di cui abbiamo parlato e ne attenua altre. Un’inflazione elevata fa infatti bene ai debitori, come lo Stato, le famiglie o le aziende. Non piace ai creditori, ossia le banche. Il valore relativo del passivo viene infatti eroso dall’aumento generalizzato dei prezzi. Il combinato disposto di tassi in salita e inflazione in discesa è un mix negativo per i bilanci statali. L’inflazione fa anche bene ai profitti di chiunque possa agire su prezzi e listini (aziende e negozi) e nuoce a chi invece vive di introiti fissi (stipendiati).

Cosa accadrà ora Diversamente da quanto sperato da molti, è piuttosto difficile che la riduzione dei tassi di giovedì segni l’inizio di una serie di tagli ravvicinati. Gli ultimi dati sull’inflazione di Stati Uniti ed area euro segnalano ancora qualche criticità. La Fed è piuttosto determinata nel non forzare i tempi e l’economia statunitense non è in sofferenza. Lo è di più quella europea ma la Bce deve anche tenere conto di quello che accade dall’altra parte dell’Atlantico. Un differenziale troppo marcato nei tassi di due continenti genererebbe squilibri nei rapporti tra le valute e nei commerci.

 

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