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CATANIA – Non ha mai collaborato e forse mai collaborerà con la giustizia, nell’accezione che viene universalmente attribuita in Sicilia, storicamente – quasi semanticamente – a questa locuzione. Eppure la “dissociazione” di Salvatore Massimiliano Salvo, figlio 42enne del boss del clan Cappello Giuseppe, sarebbe sincera.

A stabilirlo è una sentenza, emessa dal Gup di Caltanissetta Santi Bologna. Salvo viene condannato per l’omicidio di Prospero Leonardi, cugino di un vecchio boss ergastolano di Cosa Nostra, ma la pena è bassissima per un delitto di mafia. Salvo, difeso dall’avvocato Giorgio Antoci, prende 18 anni. E il motivo è proprio quello: le attenuanti generiche.

La confessione

Salvo non è un collaboratore di giustizia, vale la pena di ribadirlo, ma in questo processo ha parlato. Eccome se ha parlato. Ha fatto i nomi dei complici e ha indicato anche uno dei pentiti che lo accusava, Orazio Cardaci detto “favi frischi”, accusandolo di aver fatto agli assassini sostanzialmente da palo. Poi ha confessato l’omicidio, ovviamente.

Soprattutto, però, Salvo si è dissociato dalla mafia. Le attenuanti, grazie a questo, sono ritenute equivalenti alle aggravanti contestate. “Seppur gravato da gravi precedenti penali – scrive il Gup nella sentenza – ha comunque iniziato un percorso di distacco dalla criminalità organizzata, accompagnato da un contributo rilevante offerto nell’odierna vicenda”.

Gli elementi positivi, insomma, sempre per dirla con le parole del Gup, sono “il percorso di dissociazione dalla consorteria criminale”, che comunque ha “intrapreso”. E le sue dichiarazioni sul delitto. Non “si è limitato al riconoscimento delle proprie responsabilità nell’uccisione di Leonardi Prospero (invero, già emerse)”.

La ricostruzione dei moventi

Non si è limitato, appunto, a questo. Lui “ha anche fornito importanti chiavi di lettura di aspetti finora rimasti in ombra o, al più, logicamente ipotizzati dagli inquirenti”. Si pensi, ricorda il giudice, alla “circostanziata chiamata in correità nei confronti del “collaboratore di giustizia” Cardaci Orazio”.

Quest’ultimo, stando sempre alla sentenza a carico di Salvo, avrebbe svolto il ruolo di vedetta, “fornendo un fondamentale supporto sia preventivo, che successivo, alla realizzazione dell’omicidio”. Inoltre avrebbe avuto anche un movente concorrente”. Il movente era legato a presunti sgarri che avrebbe subito dalla vittima.

Va precisato che il movente principale sarebbe legato al fatto che Prospero, cugino di Salvatore Leonardi, storico boss di Cosa Nostra, era convinto di portare Cosa Nostra al vertice del potere mafioso in paese. Come era una volta. Oggi però Cosa Nostra non conta più niente. E lui si era messo in testa di cacciare il clan Cappello, dunque i Salvo, da Catenanuova: questo gli è costato la vita.

Gli “sgarri” a Cardaci

Ma anche Cardaci avrebbe voluto morto Prospero Leonardi, ha sostenuto Salvo. Quest’ultimo avrebbe aperto una rivendita ambulante di panini in concorrenza con il suo panificio. E in più Leonardi avrebbe fatto capire a Cardaci che avrebbe dovuto pagare la messa a posto. Il pizzo, insomma. A quel punto, secondo Salvo, Cardaci li avrebbe aiutati.

Prima avrebbe seguito Leonardi e studiato i suoi movimenti. Poi avrebbe individuato l’auto su cui Leonardi era a bordo, la sera dell’omicidio, indicandola agli assassini. Le dichiarazioni, ritenute sincere, di Salvo, hanno portato alla concessione delle attenuanti.

La cosiddetta “affectio societatis” di Salvo

Ma le attenuanti non sono ritenute più importanti della aggravanti, altrimenti la pena sarebbe scesa ancora. Questo perché il giudice ha tenuto conto di altre circostanze. Sono “la complessiva gravità del fatto”; poi i suoi precedenti penali; e infine il fatto che si parta da una pena bassissima. Il tutto, con l’ulteriore circostanza ineludibile: Salvo, scrivono, è “portatore di una fortissima e pregressa affectio societatis”.

Lui infatti è il figlio di uno dei fondatori del clan Cappello, ovvero Pippo ‘u Carruzzeri. Quel clan lui lo ha anche diretto, ne è stato il boss. E come già detto, pure oggi non è un pentito. Non sta collaborando. Va evidenziato infine come questa sentenza sembri aprire a sviluppi importanti, sulla scorta di recenti provvedimenti normativi (su tutte la cosiddetta “legge Cartabia”).

Il giudice infatti mette in risalto come non si possano concedere altri sconti, per dirla in breve, perché l’imputato non ha offerto un risarcimento alle vittime. Né di natura economica né di altro tipo: “Si pensi – scrive il giudice anche solo alla manifestazione della volontà di partecipazione a programmi di giustizia riparativa con gli eredi della vittima del reato”. In sentenza, in pratica, vengono citati dei recenti istituti che provengono o sono stati ribaditi, in qualche modo, dalla legge Cartabia.

La logica della dissociazione

La sentenza, a dir poco innovativa, entra anche nella ratio della cosiddetta dissociazione. La dissociazione per i boss mafiosi, va evidenziato, più volte anche di recente è stata oggetto di censura da parte dei tribunali e dalle corti: “Se vuoi pentirti – hanno sempre sostenuto i giudici – allora fallo, ma dissociarti a parole dall’organizzazione non basta”.

A voler semplificare il concetto, in una sintesi estrema e al netto di tutte le valutazioni giurisprudenziali e tecniche formulate dai giudici, questa lettura restrittiva contro la tesi della dissociazione è emersa anche nella recente sentenza del processo Camaleonte.

Salvo è stato assolto laddove era accusato di associazione mafiosa aggravata. I giudici qui lo hanno assolto per non aver commesso il fatto, perché già condannato per mafia nel periodo antecedente e nel tempo della sentenza era in carcere al 41 bis.

Eppure anche in questo processo il suo legale, l’avvocato Antoci, aveva sostenuto la tesi della dissociazione. Un argomento della difesa che, di fatto, avrebbe aperto ulteriori scenari. Tuttavia non è stato accolto. E c’è da credere che la partita non sia affatto chiusa. Ora, teoricamente, se ne potrebbe parlare in Cassazione.

 

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