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Come sono nate le agevolazioni Industria 4.0 e 5.0? #finsubito prestito immediato

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Paolo Carnazza ha lavorato, in qualità di economista industriale, presso la Direzione Generale per la politica industriale, l’innovazione e le piccole e medie imprese del Mise, contribuendo alla nascita del Piano Nazionale Industria 4.0

Paolo Carnazza ha conseguito la laurea in Scienze Economiche presso la Facoltà di Scienze Economiche e bancarie (Università di Siena) e conseguito il Master of Science in Economics presso l’Università inglese di York. Dal gennaio 2011 al 30 giugno 2022 (ovvero negli anni in cui è stato concepito il Piano Nazionale Industria 4.0), ha lavorato, in qualità di economista industriale, presso la Direzione Generale per la politica industriale, l’innovazione e le piccole e medie imprese del Ministero dello Sviluppo economico (MISE, ora Ministero delle Imprese e del Made in Italy), dove si è occupato prevalentemente di analisi del sistema produttivo italiano e delle principali misure di politica industriale. Prima di quest’ultimo impegno professionale, ha svolto e diretto attività di ricerca presso Uffici studi di varie Istituzioni private e pubbliche. Ha partecipato a numerosi convegni internazionali e italiani e ha pubblicato poco più di cento articoli in riviste internazionali e italiane sulle seguenti tematiche: aspetti metodologici connessi alla congiuntura e al ciclo economico, economia territoriale, economia e politica industriale. Ha pubblicato, presso la Casa Editrice ARACNE nel dicembre 2011, “Vedere lontano” e, presso la Casa Editrice SUSIL nel maggio 2023, “Navigare nell’incertezza – Recenti strategie imprenditoriali e politica industriale in Italia”.

Questo lavoro, a cui rimandiamo per eventuali approfondimenti, si è concentrato sui principali effetti della rivoluzione tecnologica 4.0 e di due recenti shock strutturali, attribuibili al COVID-19 e all’invasione della Russia in Ucraina, sull’economia italiana. In particolare, il libro si sofferma, da una parte, sulla spontanea capacità di resilienza e di reazione alla crisi pandemica di una discreta parte del sistema imprenditoriale italiano e, dall’altra, sulle varie misure adottate dal Governo, di carattere strutturale, e per fronteggiare la crisi.

  • Lei ha scritto un libro molto interessante e che potremmo definire piacevole da leggere anche per non addetti ai lavori e sicuramente per chi non è uno specialista di politiche economiche. Perché potrebbe essere una lettura consigliata per gli ingegneri?

In effetti, il mio sforzo è stato quello di soffermarmi sui più recenti cambiamenti strutturali e sulle risposte di politica economica e industriale in Italia nel modo più semplice ed esaustivo possibile. Il fatto di avere vissuto da vicino molte vicende mi ha permesso, credo, di penetrare più a fondo le varie tematiche trattate. E’ una lettura consigliata per gli ingegneri? Non sta a me dirlo: ho cercato di fornire alcune chiavi di lettura e, in questo senso, il libro può essere uno stimolo e rappresentare un approccio metodologico di largo respiro al di là degli aspetti tecnici/operativi che stanno accompagnando la Rivoluzione tecnologica 4.0. Il tecnico a volte si “perde” nei vari tecnicismi (che sono assolutamente necessari) rischiando, però, di perdere di vista il carattere generale dei profondi cambiamenti che ho cercato di mettere in evidenza nel mio lavoro.

  • Come leggiamo nel suo libro esistono diverse scuole di politica economica: da chi pensa che lo Stato dovrebbe orientare le imprese verso alcuni ambiti di investimento a chi, invece, ritiene che il mercato dovrebbe regolare da solo lo sviluppo. Sono chiaramente scelte politiche, ma nel recente passato come descriverebbe il ruolo e la funzione del Ministero dello Sviluppo Economico (ora delle Imprese e del Made in Italy) nel sostenere e orientare la politica industriale in Italia?

Il dibattito Stato – mercato è un tema delicato da cui emergono diverse visioni: da quella liberista a quella che concepisce uno Stato imprenditore. La mia posizione è abbastanza chiara. Io credo fortemente in quella che l’economista austriaco Joseph Schumpeter definiva la “distruzione creatrice” degli imprenditori ovvero un processo che è in grado di ricreare continuamente nuovi mercati e nuove opportunità di business per le imprese. Credo, però, altresì che lo Stato possa e debba svolgere una funzione importante soprattutto nel campo della giustizia, della difesa e della sanità. Credo ancora che il mercato debba essere regolato e controllato. Sulla politica industriale, sulla scia delle diverse visioni, esistono posizioni differenti. Ho lavorato presso il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) per più di un decennio (dal 2011 al 2022). In questo periodo ho assistito a un progressivo ampliamento delle misure di politica industriale che hanno riguardato: la realizzazione di oltre 60 Tavoli di crisi (tra i più importanti quelli riguardanti l’ILVA e l’Ex ALITALIA), il potenziamento del Fondo di Garanzia Centrale per le PMI, incentivi e agevolazioni (sia di carattere monetario che fiscale) a favore delle startup innovative e delle PMI innovative. Ma, soprattutto, ho assistito all’elaborazione del Piano Industria 4.0 che ha rappresentato e rappresenta un tentativo (credo abbastanza riuscito) di impostare una nuova e organica politica industriale finalizzata a sostenere le imprese verso la Rivoluzione tecnologica 4.0. La politica industriale è così tornata al centro dell’agenda di Governo (non solo dell’Italia ma anche all’interno dei principali Paesi soprattutto a seguito della crisi pandemica). Gli strumenti che sono stati introdotti partono da una lettura della struttura dell’economia italiana e del sistema produttivo (nei suoi punti di forza e di debolezza) e hanno cercato di tenere conto della nuova fase di globalizzazione e dei cambiamenti tecnologici che stanno caratterizzando il presente scenario.

  • Qual è stata la genesi del Piano Nazionale 4.0 e quali sono stati i criteri che hanno portato i diversi Governi a stabilire le agevolazioni sugli investimenti 4.0 delle aziende? Ha veramente colmato una lacuna?

Il nostro Paese ha impostato, nel settembre 2016, un Piano Nazionale Industria 4.0 trasformatosi, nel settembre dell’anno successivo, in Piano Nazionale Impresa 4.0 per sottolineare la necessità di adottare interventi a favore di tutto il comparto produttivo, manifatturiero e servizi e, nel 2019, in Piano Nazionale Transizione 4.0 che ha rivolto una maggiore attenzione ai temi della sostenibilità e dell’ambiente. Il Piano si basa su un approccio di politica industriale ambizioso, agisce sui fattori potenzialmente in grado di abilitare la Quarta rivoluzione industriale integrando misure di sostegno agli investimenti innovativi e in R&S delle imprese, misure per l’accelerazione del completamento della banda larga e ultra-larga, infrastruttura immateriale indispensabile per la digitalizzazione dell’economia e, infine, misure per l’adeguamento delle competenze e per il trasferimento delle conoscenze.

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Rinvio, a chi fosse interessato, al primo capitolo del mio libro per un’analisi approfondita del Piano anche nei suoi aspetti più tecnici ed operativi. Qui mi preme sottolineare la genesi di questo processo, perché e come è stato concepito. In particolare, l’elaborazione di questo Piano si è fondata su una serie di analisi preliminari, condotte attraverso gruppi di lavoro presso il Ministero dello Sviluppo Economico, che hanno riguardato: un approfondimento delle cause della modesta crescita economica e della produttività dell’Italia; l’individuazione degli obiettivi di breve e medio termine; un’analisi di benchmarking per verificare le strategie e politiche adottate nei principali Paesi industrializzati; un confronto continuo con tutti gli attori del sistema economico e produttivo per evitare il rischio di uno scollegamento tra l’orientamento del Piano e le esigenze delle imprese; l’individuazione degli strumenti e una misurazione oggettiva ed esplicita dei risultati da raggiungere in un preciso ambito temporale (target statistico-economici dichiarati e verificabili con un’operazione al tempo stesso di trasparenza per la valutazione del Piano e di continuo monitoraggio e verifica per il policy maker, al fine di  adeguare le misure per correggere eventuali scostamenti). Non ultimo, il Piano è stato inteso in termini dinamici potendosi arricchire di anno in anno – come è stato – di nuove azioni funzionali ad accompagnare il sistema produttivo italiano verso la Quarta rivoluzione industriale. Il Piano si è fondato su tre principi guida:

  1. operare in una logica di neutralità tecnologica, settoriale e di dimensione d’impresa;
  2. intervenire con misure orizzontali prevalentemente automatiche (agevolazioni fiscali), abbandonando gli interventi a bando;
  3. agire su fattori abilitanti: investimenti, competenze, infrastrutture.

Ha il Piano Industria 4.0 colmato una lacuna? Ha effettivamente contribuito a rafforzare il livello di innovazione del nostro sistema produttivo? A mio parere possiamo dare una risposta nel complesso positiva, anche se il cammino da percorrere è ancora lungo e molti sono gli aggiustamenti da realizzare. Dopo un decennio di misure di politica industriale susseguitesi senza un’apparente cornice unitaria, con questo Piano – come già prima evidenziato – si è tornati a impostare una politica industriale organica e coerente, in grado di valorizzare quanto di positivo era stato fatto in passato, riorientandola e rafforzandola per il perseguimento di un obiettivo ben individuato e finalizzato prevalentemente a sostenere il processo di innovazione e di digitalizzazione del sistema produttivo italiano.

Mi sia permessa un’ultima considerazione: l’importanza del dato, la conoscenza approfondita, statica e dinamica, del sistema produttivo (l’ISTAT realizza da anni Rapporti e analisi molto dettagliate sulle imprese italiane), un maggiore “colloquio” e migliori sinergie tra le varie Istituzioni rappresentano un primo fondamentale tassello per realizzare misure di politica industriale/economica serie e responsabili, da estendere in un orizzonte temporale di almeno un triennio al fine di dare certezza alla classe imprenditoriale.

  • Oltre alla parte politica, cioè al Governo, il Piano 4.0 ha coinvolto sicuramente anche tecnici e funzionari del Ministero: qual è il peso della politica e quale quello di voi tecnici? Qual è stato il vostro ruolo?

I tecnici supportano con la propria attività i politici che hanno il compito di prendere le decisioni. I tecnici lavorano a supporto dei decisori con analisi, studi etc. (questi studi sono di fondamentale importanza come ho cercato di evidenziare in precedenza) dando consigli e suggerimenti. Per l’elaborazione di questo Piano si è lavorato anche in collaborazione con l’Agenzia delle Entrate e il MEF.

  • Come valuta la capacità degli imprenditori italiani di adeguarsi alla rivoluzione tecnologica 4.0 e di sfruttare le opportunità offerte dal Piano Nazionale 4.0?

La valutazione ex-post delle misure di politica industriale costituisce un passo fondamentale e un supporto per il policy maker per la successiva conferma, implementazione, adozione (eventuale) di nuove misure. L’esercizio di valutazione ha trovato sempre più spazio negli ultimi anni all’interno del MISE. Sul Piano Impresa 4.0 sono tuttora in corso valutazioni soprattutto da parte della Banca d’Italia che saranno disponibili, credo, entro l’inizio del prossimo anno e da parte di alcuni Organismi autonomi.

Soffermiamoci su alcune Indagini e ricerche condotte recentemente. In particolar modo, da un’Indagine condotta dall’Istituto di ricerca Monitoraggio Economia e Territorio (MET) per conto del MISE nel 2019 emerge un grado crescente di utilizzo degli strumenti del Piano all’aumentare della dimensione di impresa. In questo scenario la piccola, ma soprattutto la microimpresa (fino a 9 addetti), sembrano beneficiare in misura molto contenuta delle agevolazioni fiscali a sostegno dei nuovi investimenti in innovazione tecnologica e in ricerca e sviluppo. Un altro studio sul coinvolgimento delle medie imprese italiane nel Paradigma tecnologico 4.0 è stato elaborato dal Centro Studi Guglielmo Tagliacarne e da Mediobanca nel giugno 2022. L’Indagine fa riferimento a 3.174 medie imprese (MI) – dati relativi al 2020 – oggetto di analisi e ricerche da parte di Mediobanca da 25 anni: sono le cosiddette multinazionali tascabili che, come noto, rappresentano un nucleo di eccellenza del nostro sistema produttivo distinguendosi per le eccezionali performance in termini di innovazione e di internazionalizzazione. Per questo motivo non devono sorprendere i risultati estremamente positivi del loro coinvolgimento nella rivoluzione industriale; in particolar modo, il 76% delle MI avrebbe segnalato di avere investito in almeno una tecnologia 4.0 negli anni 2017-2021 mentre il 70% di queste imprese ha dichiarato di volere continuare a investire in queste tecnologie nel triennio 2022-2024. Un’altra ricerca è stata condotta dall’Istituto SVIMEZ (aprile 2020) che ha stimato i distinti effetti territoriali del Piano Nazionale Impresa 4.0: l’impatto è stato stimato, relativamente a un arco temporale di 6 anni, più rilevante nell’area del Centro-Nord rispetto a quella del Sud. Alla fine del periodo di implementazione, la policy genererebbe quasi due decimi di punti percentuali di PIL aggiuntivi nell’area centro-settentrionale del Paese, mentre nel Mezzogiorno tale impatto sarebbe largamente inferiore e pari al decimo di punto percentuale (0,03%).

Infine, l’ISTAT, nel Rapporto annuale sulla competitività dei settori produttivi (siamo arrivati alla quattordicesima edizione) presentato alla fine di marzo di quest’anno, permette di fotografare il grado di maturità tecnologica del nostro sistema produttivo. Sulla base di una raffinata analisi statistica, sono definite quattro tipologie di imprese in relazione al numero di tecnologie adottate:

  1. le imprese asistematiche: hanno la percezione delle potenzialità del digitale ma, per la loro dimensione o collocazione settoriale, hanno difficoltà a prefigurare una transizione sistematica verso un assetto organizzativo intensamente digitalizzato;
  2. imprese costruttive: hanno realizzato un deciso sforzo volto all’individuazione di una chiara strategia digitale;
  3. imprese sperimentatrici: arrivate alla soglia della maturità digitale, stanno sperimentando diverse soluzioni informatiche, anche combinate tra loro, al fine di ottenere i maggiori vantaggi in termini di efficienza e produttività;
  4. imprese digitalmente mature: caratterizzate da un utilizzo integrato delle tecnologie disponibili.

Dal Rapporto emerge un risultato molto interessante e abbastanza incoraggiante: tra il 2018 e il 2022 la quota percentuale di imprese mature digitalmente passa dal 2,6% al 7% del totale mentre la quota di imprese sperimentatrici aumenta sensibilmente, nello stesso arco temporale, dal 9,5% al 35,8 per cento. Le imprese  asistematiche  diminuiscono dal 70,2% nel 2018 al 40,7% nel 2022 sul totale del sistema produttivo.

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In sintesi, dalle Indagini e studi indicati (in attesa di risultati e stime più robuste), sembra emergere che a cavalcare la nuova onda tecnologica siano state soprattutto le medie imprese eccellenti (già quindi operanti sulla frontiera tecnologica) e le imprese del Centro Nord. Ad essere state meno beneficiate le microimprese e operanti nell’area meridionale. Molte imprese, inoltre, come emerge da alcune Indagini condotte recentemente dal MISE, hanno segnalato di non conoscere le varie misure agevolative contemplate nel Piano (la non conoscenza delle misure di politica industriale rappresenta, in realtà, un problema strutturale che investe in generale le varie misure a favore delle imprese) e non sempre sono in grado di comprendere la complessità delle varie tecnologie e l’effettivo utilizzo e impatto sul proprio processo produttivo. Le diverse Istituzioni create nel territorio (tra cui i Punti di innovazione tecnologica presso le Camere di Commercio e i Centri di competenza finanziati dal MISE) hanno, tra i vari compiti, proprio quello di supportare gli imprenditori soprattutto delle imprese di più piccole dimensioni per far conoscere loro le potenzialità degli investimenti tecnologici 4.0. Purtroppo, non esistono al riguardo molte informazioni sulle loro attività.

  • Ora si parla di Transizione 5.0 dove il tema dell’ambiente si aggiunge a quello della transizione digitale. Qual è la sua opinione in merito?

Recentemente, alla fine di febbraio del corrente anno, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto – legge PNRR che introduce il nuovo Piano Transizione 5.0. Il Programma mira a sostenere gli investimenti in digitalizzazione e nella transizione green delle imprese attraverso un innovativo schema di crediti d’imposta. Il Piano prevede risorse pari a 6,3 miliardi di euro, che si aggiungono ai 6,4 miliardi già previsti dalla Legge di bilancio, per un totale di circa 13 miliardi nel biennio 2024-2025 a favore della transizione digitale e green delle imprese italiane. Alle imprese verrà concesso un credito d’imposta automatico, senza alcuna valutazione preliminare, senza discriminazioni legate alle dimensioni dell’impresa, al settore di attività o alla sua localizzazione. Saranno agevolati gli investimenti in beni materiali e immateriali, purché si raggiunga una riduzione dei consumi energetici dell’unità produttiva pari almeno al 3% (o al 5% se calcolata sul processo interessato dall’investimento). Il Piano rappresenta la continuazione dei precedenti Piani Industria 4.0 e intende raggiungere un importante obiettivo: andare oltre la tecnologia, guardando anche ai benefici ecologici e sociali portati dalla transizione digitale e green. La mia opinione sul Piano e sulle sue finalità volte a favorire la sostenibilità ambientale è nel complesso positiva. E’ però cruciale, per dare certezza agli imprenditori, che questi incentivi abbiano almeno una durata triennale e che i vari decreti attuativi si realizzino nel più breve tempo possibile.

  • Ci ha colpito molto la sua attenzione alle mid-cap e alla formazione degli imprenditori del presente e del futuro. Iniziando dal primo di questi temi: piccolo è bello, ma solo se non è molto piccolo!?

Le dimensioni aziendali rappresentano un tema di fondamentale importanza e hanno occupato e occupano tuttora un ruolo di rilievo nel dibattito scientifico. La dimensione conta? E se sì, quanto? Il recente Censimento dell’ISTAT conferma risultati noti: le piccole imprese italiane (soprattutto le micro che hanno un peso sensibilmente maggiore sul totale delle imprese rispetto ai principali Paesi europei in termini di incidenza del valore aggiunto e dell’occupazione) sono caratterizzate in generale da una minore propensione all’innovazione, all’internazionalizzazione, dedicano meno risorse agli investimenti in formazione del proprio personale e alle strategie di sostenibilità ambientale e sociale. Nonostante questi vincoli, le micro e piccole imprese italiane hanno però dimostrato negli ultimi decenni di rappresentare anche un fattore di forza per la nostra economia grazie alla loro vitalità e resilienza e per essere riuscite a collocarsi all’interno di nicchie specialistiche produttive. Ciò ha permesso al nostro Paese di esportare prodotti unici e inimitabili, espressione del Made in Italy. Ce lo dicono diverse analisi e ricerche (ad esempio quelle condotte da Marco Fortis).

Come sono riuscite le micro e piccole imprese ad essere competitive nel presente scenario? Diverse sono le cause: realizzazione di prodotti unici e inimitabili, capacità di creare relazioni con altre imprese (spesso di natura informale), la forza espressa dal territorio (si pensi, in particolar modo, ai distretti industriali che hanno evidenziato una capacità di resilienza alla crisi pandemica e alle varie crisi (legate soprattutto ai conflitti bellici) realizzando eccellenti performance in termini di esportazioni. Queste considerazioni sembrerebbero portarci alla conclusione (ovviamente da esplorare e approfondire) che la dimensione possa rappresentare un vincolo ma, al contempo, possa essere un punto di forza della nostra economia.

Un dato emerso dal Rapporto dell’ISTAT, di cui si è parlato in precedenza, sembrerebbe dare conforto a quanto appena sostenuto. L’Istituto di statistica ha elaborato un indicatore di dinamismo strategico relativamente alle oltre 200 mila imprese con almeno 10 addetti volto a sintetizzare la propensione a innovare, a investire in tecnologia, in formazione del personale e in organizzazione aziendale. I valori assunti dall’indicatore consentono di raggruppare le imprese in cinque classi secondo un ordine crescente di dinamismo partendo dalle imprese a basso dinamismo (caratterizzate da una sostanziale assenza di pianificazione strategica e da un finanziamento puramente interno) a imprese ad alto dinamismo (imprese che hanno realizzato ingenti investimenti in Ricerca e Sviluppo, internazionalizzazione, investimenti in formazione). Tra il 2018 e il 2022 la quota di imprese a medio-alto e alto dinamismo aumenta dal 17,1% al 22,3%. Il grado di dinamismo aumenta all’aumentare delle dimensioni aziendali ma, al contempo, a una quota significativa di imprese tra i 10 e i 49 addetti, non è preclusa l’adozione di profili organizzativo-strategici più complessi e più orientati all’innovazione, alla digitalizzazione e all’espansione nei mercati esteri. Come sottolineato nel Rapporto, vi è una sorta di “dinamismo accessibile” che sembra permettere, quindi, anche alle piccole imprese di collocarsi nella fascia di imprese ad alto dinamismo.

  • Quali sono le principali sfide e opportunità del passaggio generazionale tra vecchi e nuovi imprenditori, spesso legati a dinamiche familiari e a livelli di preparazione eterogenei degli stessi?

Il tema evidenziato è molto importante e, a mio parere, fin troppo trascurato dai policy makers. Emerge dal recente Censimento condotto dall’ISTAT che una quota percentuale molto modesta di imprenditori (appena l’1,5%) abbia segnalato nel 2022 di avere affrontato il passaggio generazionale dal 2016 al 2022. Relativamente al biennio 2024-2025 tale quota sale lievemente collocandosi al 7,9%. Questa mancanza di programmazione pone un problema molto serio tenendo conto dell’elevata età media degli imprenditori italiani (in linea con il progressivo e sensibile invecchiamento dell’intera popolazione, come evidenziato in una recente analisi condotta dall’ISTAT: il cosiddetto “inverno demografico”). In particolare, secondo una ricerca condotta da Unioncamere, poco meno del 9% degli imprenditori ha 70 anni e più mentre, tra il marzo 2013 e il marzo 2018, la quota di imprenditori cinquantenni sul totale sarebbe aumentata dal 53,3% al 61 per cento. Di fronte alla complessità del presente scenario, diventa sempre più importante che gli imprenditori anziani (spesso riottosi a lasciare le redini dell’azienda, ma in generale meno dinamici e meno propensi al rischio a confronto degli imprenditori più giovani) passino il testimone ai propri figli/parenti*.  Questo tema meriterebbe sicuramente più spazio e, soprattutto, dovrebbe essere inserito – tra i problemi più delicati da affrontare – nell’Agenda dei nostri politici. Un capitolo del libro è dedicato a questo importante tema e cerca di fornire anche alcuni suggerimenti di policy.

* Dall’ultimo censimento la coorte demografica più numerosa è quella dei 50-54enni. https://www.istat.it/it/files/2022/12/CENSIMENTO-E-DINAMICA-DEMOGRAFICA-2021.pdf (Nota dei redattori)

 

  • Parliamo ora un po’ della nostra categoria. È opinione diffusa che l’Italia sia carente nella quantità di laureati con lauree STEM. Quali sono le prospettive degli ingegneri nel contribuire al progresso tecnologico e alla competitività dell’Italia nel contesto globale?

Purtroppo, non è un’opinione diffusa: la quota di laureati STEM in Italia, secondo recenti statistiche fornite da EUROSTAT, si attesterebbe al 24,5% del totale dei laureati contro una quota del 36,8% in Germania. Da più parti si evidenzia la necessità di aumentare tale quota data la complessità delle nuove tecnologie. Il contributo degli ingegneri appare, quindi, fondamentale. Come accennato precedentemente, però, il tecnico rischia di “perdersi” nei vari tecnicismi e aspetti operativi perdendo di vista il carattere generale di questi profondi cambiamenti.  Da qui lo sforzo che voi, come Ordine degli Ingegneri state realizzando, di organizzare corsi di formazione e di aggiornamento per i vostri iscritti non solamente per accrescere le loro competenze tecniche e finanziarie (tra l’altro, soggette a una rapida obsolescenza) ma, soprattutto, per acquisire e migliorare le loro capacità trasversali o soft skills (come la flessibilità, la creatività, la capacità di leadership, la risoluzione di problemi) che giocheranno un ruolo sempre più importante nel presente scenario caratterizzato da un elevato grado di incertezza e di complessità.

Non a caso l’acronimo STEM (Science – Technology – Engineering – Mathematics) é stato aggiornato in STEAM dove per A si intende Arts, in generale, la promozione della creatività e dell’interdisciplinarietà, doti considerate sempre più necessarie per affrontare le sfide del mondo reale.

  • Qual è il suo parere sull’attività degli ingegneri professionisti nella valutazione dei requisiti tecnici degli investimenti 4.0 e nella certificazione dei crediti d’imposta per ricerca e sviluppo delle aziende?

Questa attività è fondamentale anche per evitare ciò che è emerso nella concessione dei crediti di imposta per spese in ricerca e sviluppo previsti dai vari Piani dove è risultato ex-post che molte imprese non ne avrebbero avuto diritto (il riferimento è soprattutto legato alle diverse tipologie di queste spese, non sempre ben identificate dal Legislatore ma anche alla condotta non sempre “leale” di molti imprenditori). Fondamentale, in questo processo, è che si stabilisca un rapporto di fiducia reciproca tra la Pubblica Amministrazione e la sfera privata; l’ammissione dei tecnici nello specifico Albo dovrebbe essere, inoltre, sottoposta a una rigorosa verifica dei criteri di professionalità richiesti nell’interesse della stessa credibilità dell’Ordine degli ingegneri.

 

Emanuele Canetti, ingegnere informatico e imprenditore, si dedica a tempo pieno alla finanza agevolata dal suo primo impiego post-universitario nel marzo 2003. Il suo lavoro consiste principalmente nell’applicare le normative in contesti scientifico-tecnologici relativi a investimenti, ricerca e sviluppo. Con un gruppo multidisciplinare di collaboratori lavora per aziende private e studi professionali occupandosi anche di automazione nella gestione delle pratiche di ufficio e fornendo assistenza su progetti di digitalizzazione.

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Questa intervista è stata realizzata su iniziativa e con la collaborazione del Dr. Paolo Pesce, ex-funzionario del Ministero dello Sviluppo Economico presso la sede di Venezia, che ha più volte preso parte a convegni organizzati dalla Fondazione Ingegneri Padova per illustrare le iniziative del governo in tema “4.0”.  Nel corso della realizzazione dell’intervista il dr. Pesce, malato da tempo, è venuto a mancare. Vogliamo pertanto ringraziarlo un’ultima volta per la sua gentile collaborazione con il nostro Ordine.

 

 



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