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diGiusi Fasano
Forlì, la coppia fu costretta a cambiare casa per i problemi di lei. La sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado: «Non c’è differenza fra il ricovero in un istituto e quello in una casa privata con assistenza»
Il senso di umanità viene prima di quello del diritto. Lo scrive proprio così Guido Rispoli, procuratore capo della Corte d’Appello di Brescia ma anche presidente della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Forlì. E questa storia viene giust’appunto dal Forlivese.
«Il caso in esame — dice la sua sentenza — è uno di quelli dove il senso di umanità deve precedere ed indirizzare quello del diritto se questo vuole continuare ad essere “ars boni et aequi” (l’arte di ciò che è buono ed equo, ndr) come insegnato da Celso».
La storia che ha meritato un verdetto tanto empatico non ha né grande né grave rilievo giuridico. Ma conta, appunto, il risvolto umano, che ha saputo imporsi laddove teoricamente ci sarebbero stati appigli anche per scrivere un finale diverso. E poi conta il principio stabilito dal giudice, tutt’altro che scontato. E cioè questo: «Non c’è differenza sostanziale fra il ricovero permanente in un istituto, che può essere anche privato, e il ricovero in una abitazione privata con assistenza costante».
Un passo indietro per capire meglio. La premessa è che si tratta di un contenzioso fra un cittadino e il suo abituale Comune di residenza, Galeata, provincia di Forlì-Cesena.
Un uomo — il signor Vittorio Sintoni — si trasferisce con la moglie Maria Laura Versari da quel Comune a un’abitazione privata di Cremona, perché lei è molto malata e non ci sono le condizioni per rimanere nella loro casa di sempre e avere un’assistenza adeguata.
Dopo un certo periodo di tempo interviene il municipio di Galeata che, dato il trasferimento, comunica che la coppia non può più contare sull’esenzione Imu accordata soltanto per l’abitazione principale. In sostanza, dice il Comune, quella sul nostro territorio non è più l’abitazione principale della signora (alla quale la casa è intestata) quindi ci dovete 2.453 euro di Imu. La cifra si può affrontare, certo. Non è la fine del mondo. Ma Vittorio e le sue due figlie decidono che non è giusto pagare perché la sistemazione a Cremona, per lui, equivale a quella in un ospedale qualsiasi: si tratta di assistere lei con le sue forze e l’aiuto costante di badanti. Proprio come se fosse in ospedale, circostanza che non avrebbe comportato la richiesta dell’Imu. E poi va detto che tutto questo avviene fra il 2019 e il 2023 (quando lei muore, a 84 anni). Nel mezzo c’è il drammatico periodo del Covid e anche per questo la parola «ospedale» lui non l’ha mai considerata.
Quindi, alla fine, la disputa arriva davanti al giudice monocratico Guido Rispoli. Che accoglie le richieste del signor Sintoni annunciando quel «prima umanità e poi diritto»; che equipara la casa di Cremona a un istituto di ricovero e che in un passaggio parla di «rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza».
Il giudice ripensa all’emozione di quell’uomo dai capelli bianchi quando scrive: «La soluzione adottata dal ricorrente, come dallo stesso ricordato in udienza con parole toccanti, ha permesso a lui di assistere la moglie in una abitazione privata a ciò specificamente destinata, tenendola tra le proprie braccia sino al momento della morte e, alla moglie, di poter morire accompagnata sino alla fine dall’amore del marito, fruendo della migliore possibile “ultima assistenza” che una persona possa augurarsi».
Lui, il signor Vittorio, 83 anni, racconta che «era la mia prima volta in un’aula di giustizia, mi tremava la voce. E poi dovevo parlare di mia moglie, che è stata una donna eccezionale, e mi tremava il cuore. L’ho assistita con tre badanti per cinque anni, giorno e notte, spendendo i risparmi di una vita, mi sono rotto il tendine del braccio destro per sollevarla e tenerla stretta a me. Siamo stati sposati 63 anni, è stato bello vivere accanto a lei ma poi la vita va come va…».
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