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«Vedevo le case bruciare e Gaza sempre più vicina» #finsubito prestito immediato

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Testimonianza raccolta da Michele Giorgio

Eravamo qui il 7 ottobre. Io, mio marito Ohad e i nostri tre figli. Il più grande, Ethan, aveva 12 anni, Yael ne aveva 10. E la bambina aveva un anno e otto mesi.
Ci siamo svegliati perché c’erano allarmi che suonavano ovunque. Sapevamo cosa fare, perché ci era già capitato di sentirli. Siamo entrati nella safe room e molto presto ci siamo accorti che stava succedendo qualcosa di diverso dal solito, perché abbiamo iniziato a sentire urla in arabo e spari sulla nostra casa. I buchi dei proiettili sono ancora visibili sulle finestre e le mura. Poi è arrivato l’odore di fumo, fuori si vedevano le macchine bruciare.

Abbiamo provato a chiudere la porta della safe room, ma aveva un problema e non ci siamo riusciti. Si sentivano continuamente spari, e urla. E molti, molti razzi sopra di noi. Gli allarmi avevano iniziato a suonare alle 6.30, e verso le otto mio marito ha deciso di uscire dalla safe room e chiudere noi dentro: era l’unico modo possibile per chiudere la porta.

Fuori, ha scritto al suo migliore amico. Gli chiedeva dove fosse l’esercito, gli diceva che c’erano tantissimi terroristi. Li vedeva dalla finestra. Gli ha anche scritto che era certo saremmo morti, che fosse la fine.

Intorno alle 10 i terroristi sono riusciti a entrare in casa, hanno tirato delle granate, e sono riusciti a entrare nella safe room. Quattro di loro. Erano tutti in uniforme, armati dalla testa ai piedi. Io ero seduta con la bambina in braccio, e ho detto ai due bambini più grandi di starmi vicino. Ci hanno subito preso i telefoni, ci urlavano in arabo ma anche in inglese, e ci hanno detto «venite a Gaza». Ho capito immediatamente. I bambini mi hanno chiesto: «Cosa vogliono da noi?». «Vogliono portarci a Gaza».

Gli ho detto di gridare aiuto: ero certa che l’esercito fosse nei paraggi. Ero sicura che la maggioranza degli spari che sentivamo venissero dall’esercito: non potevo immaginare ci fossero così tanti terroristi. Ma dopo qualche minuto che urlavamo, uno di loro mi ha puntato il fucile e mi ha minacciato di sparare. Non ci ha lasciato scelta, così siamo usciti dalla safe room e uno di loro mi ha messo addosso una coperta, perché ero in pigiama.

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Quando siamo usciti ho visto Ohad a terra, era ferito e sanguinava ma era ancora cosciente. Gli ho chiesto cosa fare. Mi ha detto di andare con loro. Ho provato a salvare la mia bambina: l’ho messa su di lui perché ero certa che non avrebbero preso una bimba. Invece l’hanno presa e ci hanno spinti fuori casa. Non l’ho salutato. Pensavo solo a come salvare i miei figli. Una volta fuori hanno chiesto la chiave: volevano portarci a Gaza con la mia macchina ma tutte le macchine stavano bruciando, inclusa la mia.

Eravamo sulla strada, ad aspettare, e loro mi filmavano. Io li imploravo di lasciar andare i bambini, e intanto mi guardavo intorno per vedere se c’era un’opportunità di fuggire. Ma avevamo intorno troppi terroristi, non potevamo fare nulla. Sono arrivate due moto e gli uomini a bordo della prima hanno preso mio figlio Ethan. Un altro ha preso me e mia figlia di dieci anni, Yael. La bambina piccola piangeva, quindi me l’hanno data.

Abbiamo cominciato a guidare attraverso il kibbutz. Le case stavano bruciando e così gli alberi, le macchine. Ancora non mi rendevo conto di cosa stessi vedendo. Ero certa che fossimo solo noi il “problema”: sono riusciti a rapire una famiglia. Lo attribuivo al difetto della porta della safe room. Non capivo, nonostante vedessi le case bruciare. E mi sono convinta che stesse per finire tutto perché li ho visti urlare al walkie talkie, e molti di loro uscire dal kibbutz. Credevo che tutto si riducesse al fatto che avevano rapito una famiglia.
Sulla strada per Gaza eravamo a bordo delle due moto, circondati da centinaia di terroristi e cittadini della Striscia, che stavano tornando a casa dopo il saccheggio. Vedevo bambini dell’età dei miei con dei coltelli in mano, in spalla grandi tv o forni a microonde.

Era surreale, non riuscivo a capire ciò che vedevo. Non facevo che pensare a come fuggire. Ci avvicinavamo sempre più al confine, vedevo Gaza diventare sempre più grande. Due carri armati dell’esercito hanno attraversato i campi a tutta velocità, e centinaia di terroristi hanno iniziato a entrare nel panico. C’era anche un elicottero che sparava nella nostra direzione, delle moto cadevano a terra. Quella è l’ultima volta che ho visto mio figlio, sulla moto che continuava ad avanzare.

Uno dei terroristi ha portato me e le mie due figlie a un container lì vicino. Ci ha puntato il fucile e ha detto che ci avrebbe portate a Gaza. Gli chiedevo: «Dov’è il mio walad»? Walad vuol dire figlio in arabo. «Dov’è il mio walad?». Ho sentito uno dei carri armati avvicinarsi al container, così siamo corse fuori – io con la bimba in braccio, e abbiamo fatto segno al carro, che non si è fermato. Non poteva: c’erano tantissimi terroristi tutto intorno. Ma il suo passaggio ci ha dato qualche secondo per scappare attraverso i campi.

Abbiamo corso per circa venti minuti, senza scarpe, in pigiama. Ero stremata dopo aver portato in braccio la bambina così a lungo. Ho detto a Yael di sdraiarsi a terra, abbiamo fatto finta di essere morte coprendoci con la coperta che mi avevano dato prima di portarci via.

Siamo rimaste così per una mezz’ora, credo, poi ho sentito delle voci avvicinarsi e ho capito che ci avrebbero trovate. Ci siamo alzate e sono arrivati due uomini, due terroristi. Uno di loro parlava inglese, ci ha chiesto dove stessimo andando. Gli ho detto che stavamo tornando a Nir Oz. Mi ha detto che Nir Oz era in fiamme, che erano tutti morti e che sarebbe stato meglio se fossimo andati con loro a Gaza. Ha provato a convincermi di seguirli.

Li ho osservati e ho visto che non avevano armi. Gli ho detto: «Mi avete già preso un figlio» e ci siamo rimesse a correre nei campi. Non ci hanno inseguite: credo avessero fretta di tornare a Gaza, perché avevano visto i carri armati e l’elicottero.

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Ho visto Ohad a terra, era ferito e sanguinava ma era ancora cosciente. Gli ho chiesto cosa fare. Mi ha detto di andare con loro. Non l’ho salutato. Pensavo solo a come salvare i miei figli

Siamo rimaste nei campi per circa tre ore e mezzo. So di aver già usato questa parola, ma era surreale. Stavo correndo, avevo la bambina in braccio. Avevamo sete, era la fine dell’estate. Ogni tanto intorno a noi vedevamo i terroristi, sopra di noi i razzi, e c’era il suono degli allarmi del kibbutz – e poi lo abbiamo visto. Tutto andava a fuoco, mi sentivo come se fossi in un film. Cercavo di capire cosa fare. Ho deciso di non tornare a Nir Oz attraverso le porte d’ingresso, perché lì c’erano molti terroristi. Abbiamo girato intorno al kibbutz passando dai campi e abbiamo raggiunto la parte nord. Lì abbiamo visto un bus che arrivava verso di noi. Oggi so che si trattava del primo bus di soldati che arrivava al kibbutz, dopo otto ore. L’esercito non c’era. Qui (a Nir Oz) non ci sono stati combattimenti.

Quando i soldati sono arrivati gli ultimi terroristi se ne erano già andati. Dopo aver preso 76 persone e dopo averne uccise, ora sappiamo, più di 54. La storia è lunga, infinita. La faccio beve. Dopo 52 giorni a Gaza Ethan è tornato.

Non conosciamo le condizioni di Ohad. L’abbiamo lasciato ferito a casa ed ero certa che non l’avrebbero preso. Ma dopo qualche ora ho ricevuto un messaggio dall’esercito: non era a casa. Non ne capivamo il senso. Pensavamo: sarà uscito per cercarci. Forse è in giro, forse nei campi. Morto. Non avevamo modo di sapere. Solo all’inizio di novembre l’esercito ci ha detto che Ohad era stato certamente rapito.

Ancora oggi non riesco a dormire se penso a ciò che Ethan ha passato. Ero certa che avrebbero trattato bene i bambini, e che non sarebbe stato solo, perché c’erano altre 76 persone del kibbutz. Ma quando è tornato ci ha detto di aver passato 16 giorni da solo, con i soldati di Hamas che non lo trattavano bene. E non parlo del cibo: mangiava solo una pita e un cetriolo al giorno, ma a quello si può sopravvivere.

Lo obbligavano a guardare i filmati che avevano girato con le body cam. Quando piangeva gli puntavano la pistola o lo picchiavano. E gli hanno raccontato tantissime storie: gli hanno detto che Israele non esisteva più, che io ero a Gaza, e le sue sorelle no.

È stato in quattro case. Dopo 16 giorni, lo hanno portato all’ospedale Nasser a Khan Younis: lì tenevano moltissimi ostaggi di Nir Oz. Anche questa parte è orribile, ma sono più calma se ci penso, perché non era solo. Stava con altre nove persone in una piccola stanza, persone di Nir Oz, in tutto cinque bambini e cinque donne. Il più piccolo aveva due anni e mezzo, la più anziana 85 anni.

Quando è tornato, Ethan non sapeva che io fossi qui, era molto sorpreso di vedermi. Ha capito che per lui è iniziata una nuova vita perché non può tornare qui. Il kibbutz non c’è più, le persone non ci sono più. E io ho deciso di iniziare una nuova vita: non abito più con la comunità, ho deciso di trasferirmi in un altro kibbutz. Non è facile ricominciare da capo per un bambino di quell’età.

Ma lui sta bene e anche noi. Dico a tutti che siamo sopravvissuti. Guariremo fisicamente, ma non possiamo guarire finché Ohad non tornerà. Non sappiamo nulla di lui. Da gennaio non sappiamo neanche se è vivo.

Un piccolo gruppo estremista di Gaza ha pubblicato un suo filmato a metà gennaio. Risale probabilmente alla prima settimana di guerra perché aveva ancora i capelli rasati. Hanno scritto che Ohad è stato ucciso dal fuoco dell’esercito. Non sappiamo se sia vero o no, ma da allora non abbiamo più saputo nulla di lui.

Viviamo così, senza sapere. Questa è la parte più difficile, le due cose più dure nelle nostre vite: ciò che non sappiamo e il pensiero di loro lì. I bambini mi chiedono di Ohad e di loro, tutti i giorni. Perché ci vuole così tanto tempo? Tornerà? È vivo? Non ho risposte per loro. Ma sapendo che non trattavano bene i bambini, non voglio pensare a cosa stanno facendo agli uomini. Abbiamo bisogno che il mondo ci aiuti a farli tornare, a farli uscire di lì. Dall’orrore, dai tunnel.



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