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Tutti pazzi per l’innovazione. Da quando i politici di tutto il mondo hanno scoperto che per ripagare il debito bisogna crescere e per crescere occorre fare quello che ci ha insegnato Schumpeter cento anni fa, e cioè sviluppare nuovi prodotti e processi, siamo tutti diventati grandi tifosi dell’innovazione.
Questa è una notizia bellissima. Infatti innovare significa anche investire in capitale umano, in formazione, in nuove tecnologie come intelligenza artificiale e materiali sostenibili, migliorando così la qualità di vita di Sapiens.
Ma l’innovazione porta con se anche una brutta notizia. Un risvolto non banale che la allontana dal «fare» subito dopo esser menzionata con vigore nel «dire». Innovazione è rischio, oltreché pazienza, e lo è ancora di più nel caso dell’innovazione radicale, quella che conta veramente e cambia le regole del gioco nelle industrie.
Ci arrendiamo quindi? No.
Tanti anni di studi interdisciplinari ci hanno spiegato come fare a fronteggiare lo scoglio sfidante di rischio e pazienza: dobbiamo dotarci di metodo a livello sia istituzionale sia imprenditoriale.
A livello istituzionale occorre costruire una filiera che va dalla scienza al mercato passando attraverso il technology transfer. Ecco perché è fondamentale a livello di Paese investire nella ricerca scientifica prodotta dalle università , dagli enti di ricerca e dalle fondazioni, e fare il possibile per orchestrare quei venture capital che stimolino il technology transfer. Esattamente come fanno da sempre gli Stati Uniti e come, in modo sorprendente, è riuscita a fare la Cina negli ultimi venti anni.
A livello imprenditoriale bisogna organizzarsi e crederci fino in fondo. Si sente spesso dire che l’innovazione sia figlia di intuizione e di un piccolo garage dove nasce la start up. Ma ci si dimentica che è poi la capacità di uscire dal garage, ovvero l’ostinazione — verrebbe da dire l’abnegazione — dell’imprenditore e dei manager, che la rende di vero successo.
La trasformazione digitale nata con i computer IBM e Olivetti negli anni sessanta, velocizzatasi con Microsoft e Amazon in quella che Erik Brynjolfsson di Stanford e Bob McAfeee di MIT hanno qualche anno fa battezzato come la «seconda età delle macchine» connesse alla rete globale del web, ha ulteriormente potenziato e affinato contenuti e metodo dell’innovazione.
A livello istituzionale abbiamo capito che è ancora più importante investire in ricerca scientifica in quanto, come dimostrano anche i recenti studi di Ashish Arora di Duke, la ricerca industriale è divenuta ancora più speculativa nel perseguimento del profitto rispetto al passato. Per alimentarla serve oggi più che mai quella blue sky research finanziata dai governi che ponga le basi della nuova conoscenza su cui trovare le applicazioni industriali. Per questo parliamo oggi di open innovation, cercando di legare scienza e mercato nel nuovo mondo. Diventa fondamentale creare ecosistemi come la Boston e Silicon Valley per beneficiare di spillover territoriali tra pubblico e privato.
A livello imprenditoriale, abbiamo scoperto che innovare nel mondo digitale non significa solo fare nuovi prodotti, ma anche nuovi business model. Per farlo è necessario quindi diventare agili e ridisegnare i modelli organizzativi per raggiungere nuovi traguardi.
Ma proprio mentre stiamo lentamente imparando a fare questo importante passo, ecco presentarsi la terza età delle macchine, quella in cui diventano anche creative. Quella dell’intelligenza artificiale generativa dei Gemini, Claude, Llama, ChatGPT e di tutti i foundation model che, se ben addestrati, ci faranno fare un salto di qualità nella velocità con cui organizziamo l’innovazione e nella creatività di soluzioni da proporre al mercato.
Tante sono le perplessità etiche e geopolitiche che circondano questa nuova età . Ma la storia di Sapiens ci insegna che quando una innovazione è apprezzata dagli utenti, il suo percorso è irreversibile. Lo sarà quindi con buona pace dell’Europa anche l’AI, che si sta già progressivamente inserendo negli algoritmi che governano i sensori che ci circondano.
Che fare quindi? Il rapporto Draghi fornisce molte risposte nel capitolo «innovazione» e ci dimostra che l’impegno per conseguire la giusta dimensione e impatto deve perseguirsi a livello continentale.
Ma per giocare la partita a livello continentale occorre non abbandonare quanto di buono è stato fatto a livello nazionale e imprenditoriale sia insistendo a valorizzare ricerca scientifica sia stimolando la governance dell’innovazione all’interno delle nostre imprese. Non banale, dicevamo, dati rischio e pazienza che connotano l’innovazione. Ma considerando il crescente debito da ripagare, quale è l’alternativa?
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