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Banca d’Italia – Intervento DG Luigi Federico Signorini | 56° Giornata del credito #finsubito prestito immediato

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(AGENPARL) – Roma, 3 Ottobre 2024

(AGENPARL) – gio 03 ottobre 2024 56a Giornata del Credito
Relazione di Luigi Federico Signorini
Direttore Generale della Banca d’Italia
Roma, 3 ottobre 2024
Meno di cinque anni fa, quando fu chiaro che la pandemia avrebbe avuto sull’attività
economica un impatto senza precedenti – in tempo di pace – a causa del blocco forzato di
molte attività, era diffuso il timore che la ferita determinasse effetti permanenti (“scarring”,
cicatrici), per porre rimedio ai quali sarebbero stati alla fine necessari anche massicci
interventi dello Stato nel capitale e nella gestione delle imprese.
Questo timore si è dimostrato infondato. Rimossi i divieti imposti per motivi sanitari,
l’attività interrotta è subito ripresa. L’andamento economico ha avuto quella forma a “V”
che molti credevano impossibile: l’eccezionale calo del PIL del 2020 (8,9 per cento) fu quasi
interamente recuperato l’anno successivo. Hanno certo giovato aiuti e garanzie pubbliche;
ma si era anche forse sottovalutata la capacità delle imprese di reagire prontamente al
mutamento delle condizioni esterne. Gli strumenti di intervento statale diretto nel capitale
delle imprese, grandi e piccole, che si erano in fretta approntati, non sono stati usati.
Meno di tre anni fa, l’invasione russa dell’Ucraina e tutto ciò che vi ha fatto seguito, in primis
i rischi emergenti sul piano degli approvvigionamenti energetici, hanno rappresentato un
altro shock duro e inatteso.
Anche in questo caso il sistema economico si è adattato. (Parlo qui dell’economia, ché le
minacce alla pace e alla sicurezza sono ancora lì, gravi). La congiuntura non è stata vivace,
ma almeno si è evitata una recessione. La transizione energetica è stata accelerata dalla
reazione di famiglie e imprese alle impennate di costo (per quanto poi in parte rientrate),
e soprattutto dalla nuova percezione della precarietà dell’approvvigionamento da fonti
tradizionali. L’incidenza delle energie rinnovabili è salita – giungendo a coprire lo scorso
giugno oltre la metà del fabbisogno di elettricità – grazie a un incremento non solo della
produzione idroelettrica (soggetta a variazioni stagionali e in parte imprevedibili, dovute
allo stato dei corsi d’acqua), ma, nel tempo, anche di quella fotovoltaica ed eolica; per il
fotovoltaico la potenza installata è cresciuta considerevolmente, di quasi il 50 per cento
in tre anni. Il peso del gas russo sul totale delle importazioni di questo combustibile si è
velocemente ridotto, scendendo da poco meno della metà nel 2021 al 5 per cento nel 2023.
Nell’ultimo quinquennio l’economia italiana ha dunque mostrato, anche a paragone
di altri grandi paesi europei, una solidità di fondo, che le ha consentito di affrontare i
ripetuti shock e le forti tensioni internazionali.
Tra il 2019 e il 2023 il PIL italiano è cresciuto del 4,6 per cento, a fronte del 2,4 della Francia
e dello 0,5 della Germania; lo scarto è più ampio in termini pro capite. Si sono espansi
fortemente gli investimenti, soprattutto quelli in costruzioni, sostenuti da incentivi fiscali
molto generosi; sono però cresciuti più della media europea anche gli investimenti in
macchinari e in proprietà intellettuale, che favoriscono avanzamenti tecnologici e aumenti
di produttività. Le esportazioni di beni e servizi sono aumentate del 9 per cento, anche in
questo caso più che nei principali paesi europei. Nonostante la concorrenza agguerrita
dei paesi emergenti, la quota di mercato italiana sulle esportazioni mondiali è rimasta
stabile; la posizione netta sull’estero del paese, che nel 2013 era negativa per il 23 per
cento del PIL, oggi è positiva per oltre il 10. Nel quinquennio 2019-2023 l’occupazione
è aumentata del 2,7 per cento, quasi 700.000 persone; sono cresciuti soprattutto i
posti di lavoro dipendenti a tempo indeterminato. Il tasso di disoccupazione è sceso
notevolmente, toccando in agosto il 6,2 per cento, il valore più basso dal 2007.
Di come interpretare l’evoluzione dell’economia italiana nel medio periodo abbiamo
parlato in più occasioni nel corso del tempo1. Abbiamo osservato che la crisi finanziaria
globale e quella dei debiti sovrani, che ha colpito il nostro paese con particolare intensità,
hanno determinato perdite dolorose, specie tra le imprese deboli e marginali; ma hanno
anche innescato un processo di ristrutturazione che si è tradotto in una crescita delle
imprese più robuste, più propense all’adozione tecnologica, all’innovazione e all’apertura
internazionale. La redditività e la posizione patrimoniale delle imprese si sono rafforzate.
Questi risultati recenti vanno però visti nella giusta prospettiva. Se negli ultimi anni il
sistema produttivo italiano ha dato prova tutto sommato di un’apprezzabile capacità di
resistenza, non va dimenticato che nei vent’anni precedenti si era perso molto terreno
rispetto all’Europa. Tra il 2000 e il 2019 il PIL pro capite italiano era leggermente calato
in termini reali, a fronte di un aumento del 25 per cento nella media dei paesi europei;
conseguentemente, se nel 2000 esso era più alto della media europea di quasi il 19
per cento, nel 2019 era diventato più basso del 4 per cento. Era mancata soprattutto la
capacità di sfruttare appieno l’avanzamento della tecnologia, anche per l’insufficiente
dotazione di capitale umano e una propensione troppo limitata all’innovazione. Seppure
leggermente migliori di altri paesi europei in questo momento (ma chi può dire per
quanto?), i tassi di crescita del prodotto e della produttività restano modesti sia in
prospettiva storica, sia nel confronto con altre aree del mondo. Il mercato del lavoro ha
fatto considerevoli progressi, ma il tasso di occupazione è tuttora di 8,8 punti più basso
della media europea; il divario è ancora più elevato, e non di poco, per le donne.
Non è allora il caso di riposare sui modesti allori dell’ultimo quinquennio. Del resto la
stessa Europa, come vedremo, ha necessità di darsi una scossa nel suo insieme. In questo
contesto, la transizione energetica e quella digitale, a volte percepite come una minaccia
o un penoso vincolo, dovrebbero invece essere viste come una occasione potenziale
di crescita e di sviluppo. È una sfida che va accettata, perché la si può vincere: la forza
Si vedano le Considerazioni finali del Governatore Panetta del maggio scorso, così come quelle
del Governatore Visco di tre anni prima; o anche il nostro intervento del 2022 alla presentazione del
Rapporto sull’economia della Lombardia.
dell’economia di mercato consiste appunto nella capacità di escogitare nuove soluzioni
per nuovi problemi; far leva su di essa è essenziale.
Dal punto di vista delle politiche per lo sviluppo, due ci paiono gli strumenti principali:
incentivi corretti e adeguate infrastrutture, nel senso più ampio della parola.
Per quanto riguarda la transizione energetica, serve assicurare sempre più che i prezzi
su cui imprese e famiglie basano le proprie decisioni incorporino le esternalità legate ai
consumi di fonte fossile (vuoi con sovvenzioni mirate, vuoi con forme di carbon pricing),
e agevolare le procedure per installare capacità di generazione rinnovabile. Nel campo
dell’innovazione tecnologica, politiche di incentivazione hanno dimostrato di essere utili,
purché per quanto possibile semplici e automatiche.
Ci sono però limiti ai risultati che incentivi monetari diretti possono conseguire, anche
per gli scarsi margini di manovra della finanza pubblica. Forse più importante ancora è
migliorare l’ambiente in cui le imprese operano. L’elenco delle questioni chiave è sempre
lo stesso: infrastrutture fisiche al passo coi tempi per trasporti, energia e comunicazioni;
efficienza delle amministrazioni; rapidità e prevedibilità della giustizia; accrescimento del
capitale umano (scuola e università); maggiore concorrenza.
Il programma Next Generation EU, sulla cui attuazione in Italia oggi siamo chiamati a
confrontarci, mette a disposizione ingenti risorse e va sfruttato per contribuire a questi
obiettivi.
L’Italia è il maggiore beneficiario dei finanziamenti. Tenendo conto delle ultime revisioni,
il Piano nazionale di ripresa e resilienza vale quasi 200 miliardi – il 9,3 per cento del nostro
PIL – da impiegare entro il 2026. Finora si sono incassati 113 miliardi, di cui quasi il 40 per
cento sotto forma di sovvenzioni, il resto in prestiti. Il Governo ha richiesto il pagamento
della sesta rata (9,8 miliardi), relativa ai 37 traguardi e obiettivi del primo semestre di
quest’anno. L’Italia è il terzo Stato membro per quota di pagamenti ricevuti sul totale e il
quinto per quota di traguardi e obiettivi completati. Secondo i dati del Governo, alla fine
dello scorso giugno risultavano finanziati e in corso di esecuzione interventi per circa 165
miliardi, pari all’85 per cento della dotazione complessiva del Piano.
La spesa effettivamente erogata, però, ammontava fino a quel momento a 51,4 miliardi. Il
ritardo nell’attuazione degli investimenti pubblici è una tradizionale debolezza del nostro
paese. Gli ultimi dati disponibili mettono in luce un’accelerazione nella pubblicazione
delle gare del PNRR e nell’esecuzione dei lavori ad esse connessi; nostre stime mostrano
che quasi la metà degli appalti per opere del PNRR si trova già nella fase di esecuzione.
Ma i progressi non sono ancora del tutto soddisfacenti: circa il 50 per cento dei lavori
avviati risulta in ritardo rispetto alle tempistiche stimate, soprattutto tra i cantieri di
maggiori dimensioni. Nel momento della concreta attuazione e spesa, il più impegnativo,
è importante assicurare la massima efficienza.
Molti degli interventi del PNRR sono orientati a stimolare l’innovazione, la diffusione
tecnologica e l’aumento della produttività. I programmi “Transizione 4.0” e “5.0” hanno
stanziato quasi 20 miliardi per incentivare gli investimenti in tecnologie avanzate e per
migliorare l’efficienza energetica nei processi produttivi. Altri progetti mirano a favorire
l’innovazione e il trasferimento tecnologico e gli investimenti nelle infrastrutture digitali
e di trasporto.
Il PNRR prevede inoltre riforme strutturali volte ad aumentare l’efficienza della pubblica
amministrazione, accelerare i tempi della giustizia, semplificare e razionalizzare il contesto
legislativo, favorire la concorrenza. Nella giustizia civile, anche grazie ad alcuni interventi
di natura organizzativa, si stanno consolidando i progressi conseguiti negli anni passati.
Il numero dei procedimenti pendenti nei tribunali si è dimezzato rispetto al 2010; la
loro durata si è ridotta. Ulteriori benefici dovrebbero realizzarsi con le misure adottate
nell’ambito del PNRR (rafforzamento dell’ufficio del processo, innovazioni procedurali); è
essenziale assicurarsi che i miglioramenti non siano transitori.
In tema di concorrenza, gli interventi del passato, volti a liberalizzare alcuni mercati e a
ridurre i costi di ingresso, hanno avuto effetti positivi sulla crescita e sulla produttività
aggregate2. Con il Piano, l’Italia si è impegnata a emanare leggi annuali in materia di
concorrenza.
Gli interventi del Piano, secondo nostre valutazioni, potrebbero accrescere la produttività
tra 3 e 6 punti percentuali nell’arco di un decennio. È difficile stimare questi effetti con
precisione; ma, in ogni caso, le stime si basano sul presupposto che i piani vengano
realizzati pienamente e nei tempi previsti.
Il problema non è solo italiano. Oggi, di fronte a nuove accelerazioni tecnologiche,
l’intera Europa stenta a tenere il passo con gli Stati Uniti, la Cina e altre grandi economie
tradizionali ed emergenti. Il rapporto Draghi, da poco diffuso, ha il merito di avere
risvegliato l’attenzione dell’opinione pubblica dell’Unione sul ritardo che essa sta
accumulando a un ritmo preoccupante.
Pur disponendo di un capitale umano tra i maggiori del mondo per quantità e qualità, e
di un vivace tessuto imprenditoriale, l’economia europea negli ultimi anni è stata lenta
nell’innovare. Ci sono segni di scarso dinamismo che devono far riflettere. Le imprese più
grandi in termini di spesa in ricerca e sviluppo sono rimaste quasi le stesse da vent’anni
(sono le case automobilistiche; aggiungeremmo che nel proprio settore esse sembrano
faticare negli ultimi tempi a guidare l’innovazione più radicale). Negli Stati Uniti le imprese
di punta per la ricerca e sviluppo sono quelle dell’economia digitale; all’interno di questo
settore emergono di continuo attori nuovi, capaci di raggiungere in breve tempo livelli
di produzione e capitalizzazione molto elevati.
Nel campo dell’intelligenza artificiale, la preminenza degli Stati Uniti è netta; segue la
Cina; l’Europa, per ora, gioca un ruolo molto più modesto. Non sappiamo se, quanto
e quando l’intelligenza artificiale manterrà la promessa di accelerare drasticamente la
produttività umana che molti pensano che essa offra, e non prendiamo necessariamente
E. Ciapanna, S. Mocetti e A. Notarpietro, “The macroeconomic effects of structural reforms: an empirical
and model-based approach”, Economic Policy, vol. 38 (2023), pp. 243-285; A. Cintolesi, S. Mocetti,
G. Roma, “Productivity and entry regulation: evidence from the universe of firms”, Banca d’Italia, Temi
di Discussione n. 1455 (2024).
alla lettera l’entusiasmo dei mercati per le aziende che operano in questo campo; ma
l’esperienza insegna che, pur con tutte le incertezze che inevitabilmente accompagnano
il progresso tecnologico, pur con il succedersi di prove ed errori, di accelerazioni e ritardi,
che lo caratterizza, rimanere ai margini è una scelta poco saggia se si ha a cuore la
prosperità futura, la nostra e quella delle generazioni che seguiranno.
Che cosa sta determinando questo divario crescente, e che cosa si può fare per colmarlo?
Non ci proponiamo qui un’analisi compiuta del rapporto Draghi; lo stiamo studiando con
attenzione; alcune analisi riprendono temi sollevati dalla Banca d’Italia in più occasioni.
Richiamiamo solo qualche punto che ci pare di particolare rilievo.
Il rapporto pone l’accento sulla necessità di accrescere considerevolmente l’investimento
nei settori innovativi, nella transizione energetica e digitale. Non vorremmo che la
discussione si focalizzasse troppo su specifici numeri aggregati, sempre molto incerti,
difficili da stimare e fin troppo facili da ricordare. Tanto meno che si partisse dal
presupposto che la parte maggiore di tali investimenti possa o debba venire dalla spesa
pubblica; non ci sembra questo il contenuto della proposta. Per investire a carico del
bilancio pubblico cifre come quelle di cui si parla non vi sarebbero peraltro i margini di
bilancio necessari, neppure a livello europeo.
Ciò che l’intervento pubblico può fare per accrescere il tasso di innovazione di un sistema
economico è principalmente favorire l’investimento privato alla frontiera delle possibilità
tecnologiche; permettere agli imprenditori e a chi li finanzia di assumersene tutte le
incertezze in cambio della speranza di profitti proporzionati, con regolamentazioni sagge
e interventi mirati.
L’Europa ha spazio per sfruttare le potenzialità ancora inespresse del mercato unico. Il
rapporto Draghi – come, prima di esso, il rapporto Letta – pone, crediamo giustamente,
l’accento sulle misure che ne possono accrescere l’integrazione, riducendo le barriere
regolamentari e consentendo alle imprese di operare in un contesto normativo uniforme.
Il rapporto sostiene inoltre che, se si intende adottare misure di politica industriale, è bene
farlo a livello europeo, non nazionale. Elenca un gran numero di possibili interventi, su cui
non avremmo la competenza per pronunciarci in modo specifico. In generale, vediamo
con favore l’obiettivo di creare a livello continentale le infrastrutture materiali e immateriali
necessarie per favorire la doppia transizione. Facciamo nostra l’idea che gli investimenti
pubblici si debbano concentrare su quegli obiettivi che hanno natura evidente di beni
pubblici europei, e per i quali i benefici siano ovvi e i rischi di distorsione minimizzati.
Infine, è il caso di interrogarsi sul grado ottimale di regolamentazione, specie delle attività
innovative. Non c’è progresso senza rischio; ogni società deve trovare il giusto equilibrio,
senza illudersi che non esista alcun trade-off tra innovazione e sicurezza, tra protezione
dell’esistente e apertura alle iniziative che mirano al futuro e quindi comportano per
forza incertezze e rischi. La scelta è delicata, specie per una società che invecchia ma deve
pensare alle prossime generazioni.
Fin qui mi sono soffermato su questioni di natura reale. Non mancherò tuttavia di offrire
qualche breve considerazione in materia finanziaria e bancaria.
L’innovazione nell’economia reale, specie quella di frontiera, è favorita dalla presenza
di intermediari specializzati, in prevalenza non bancari, che svolgono funzioni utili
nell’accompagnare la nascita e la crescita di imprese innovative: fornire direttamente capitale
privato nelle fasi di start-up, compensando l’alto rischio di fallimento con la prospettiva
di forti guadagni nei casi di successo; accompagnare il collocamento sul mercato degli
strumenti emessi da imprese con alte potenzialità di crescita; rendere fluido il mercato del
capitale di rischio, facilitando il ricambio del controllo, la liquidazione dei guadagni in conto
capitale, la crescita per linee esterne delle imprese che vogliono espandersi.
Nonostante i progressi degli ultimi anni, da noi il settore degli intermediari non bancari
è meno sviluppato che in altri paesi, come la Francia e la Germania; lo è meno ancora
se ci si confronta con altri paesi avanzati, non europei. L’osservazione vale in particolare
per gli operatori specializzati in strumenti non quotati di capitale e di debito, in cui
rientrano i fondi di venture capital e altri intermediari che svolgono ruoli importanti per
accompagnare il dinamismo del sistema delle imprese. Come ha ricordato il Governatore
nelle Considerazioni finali del maggio scorso, il settore del venture capital italiano potrebbe
trarre beneficio da un maggiore coinvolgimento degli investitori istituzionali – sempre nel
rispetto delle norme prudenziali che li governano – e dalla rimozione di ostacoli normativi,
soprattutto sui gestori dei fondi più piccoli.
La questione non è regolamentare tanto, ma regolamentare bene. È nota la nostra posizione,
più volte riaffermata anche in sede internazionale. La regolamentazione degli intermediari
non bancari deve prevenire indebiti rischi sistemici. Vanno mantenute sufficientemente
coerenti la liquidità dell’attivo e quella del passivo e va tenuto sotto controllo il leverage,
concentrandosi sugli intermediari e sugli strumenti caratterizzati da un’ampia diffusione
e da un potenziale impatto destabilizzante sui mercati. In questa visione non c’è nulla che
impedisca per esempio la nascita e la crescita di operatori che promuovono iniziative in
forma chiusa, rivolte a investitori consapevoli. Se l’ordinamento prevede restrizioni inutili
ed eccessi di burocrazia, andrà rivisto.
Non condividiamo invece l’idea che una regolamentazione macroprudenziale più lasca
sia condizione necessaria, o addirittura sufficiente, per far crescere il mercato unico dei
capitali. Recenti episodi di crisi hanno infatti reso evidente che le vulnerabilità all’interno del
settore costituiscono un rischio per la stabilità finanziaria, anche per la natura tipicamente
transfrontaliera delle attività degli intermediari e delle interconnessioni fra di loro. Vanno
dunque applicate le misure concordate e da concordare a livello internazionale; senza
imporre obblighi aggiuntivi o eccessivi che penalizzerebbero il mercato europeo, ma
anche senza restare indietro rispetto alle altre maggiori giurisdizioni.
Quanto alle banche, il loro ruolo nell’allocazione del risparmio verso gli investimenti
più produttivi resta centrale. L’innovazione, infatti, non riguarda solo le aziende di
frontiera, ma coinvolge ogni tipo di impresa, comprese quelle che operano nei settori
più consolidati. Tutte le imprese hanno bisogno di servizi di tipo bancario. Un sistema
bancario efficiente e solido, capace esso stesso di innovare nei processi e nei servizi offerti,
è meglio preparato a sostenere l’innovazione del sistema produttivo nel suo complesso.
Anche il sistema delle banche italiane si è evoluto negli anni scorsi – parallelamente, in
un certo senso, a quello delle imprese – con un rafforzamento del capitale, della liquidità
e degli altri presidi a tutela della stabilità. Questo è avvenuto, in parte non piccola, per
effetto della regolamentazione post-crisi e sotto l’impulso delle autorità di supervisione.
L’anno prossimo si completerà il recepimento nella normativa europea delle riforme
promosse dal Comitato di Basilea, seppure con un orizzonte di applicazione graduale.
In prospettiva, il completamento dell’Unione bancaria è necessario per consentire alle
banche europee di sostenere meglio il sistema produttivo, superando la frammentazione
del mercato e gli ostacoli esistenti al trasferimento dei capitali e della liquidità.
La recente introduzione da parte della Banca d’Italia di una riserva di capitale a fronte del
rischio sistemico, da costituire gradualmente entro la metà del prossimo anno, rafforzerà
la capacità del sistema bancario di affrontare possibili eventi avversi, anche indipendenti
dal ciclo economico-finanziario.
Irrobustimento delle imprese e delle banche sono andati di pari passo, influenzandosi
l’un l’altro.
Il rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese è stato uno dei fattori che
hanno consentito al sistema produttivo di affrontare la pandemia in condizioni più solide
rispetto a quelle con cui avevano affrontato le precedenti crisi. Tra il 2011 e il 2019, in
controtendenza rispetto alla media dell’area dell’euro, il debito delle imprese in rapporto
al PIL era sceso di quasi 13 punti percentuali, al 68 per cento (contro oltre il 100 nell’area).
Nello stesso periodo in cui le banche rafforzavano il patrimonio, anche le imprese hanno
accresciuto il ricorso al capitale di rischio. La leva finanziaria, misurata dal rapporto tra
i debiti finanziari e la somma degli stessi con il patrimonio netto, si è ridotta di circa 12
punti percentuali, al 38 per cento.
Durante la crisi pandemica il connesso fabbisogno di liquidità è stato ampiamente



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