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La disoccupazione è ai minimi, ma dietro ai numeri si nasconde la precarietà #finsubito prestito immediato

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Con il tasso di disoccupazione sceso al 6,2%, l’Italia tocca il livello più basso mai registrato dal 2007. Si tratta di una buona notizia? In parte: sono 355mila in meno i disoccupati rispetto all’anno scorso, con una caduta drastica tra le donne (-226mila) e gli uomini (-129mila). Ma, come sempre, i dati vanno interpretati: mentre l’area euro si attesta su un 6,4% e la Germania sfiora appena il 3,5%, l’Italia mostra ancora segni di fragilità dietro ai numeri.

Giovani e lavoro: un’illusione di miglioramento?

La disoccupazione giovanile, storicamente un problema cronico, scende al 18,3%. Un livello record per l’Istat, che fa ben sperare, ma dietro il dato c’è un universo di incertezze. Sì, in 12 mesi si sono ridotti di 95mila i giovani senza lavoro, e sì, l’Italia accorcia la distanza con la Francia (17,2%) lasciandosi alle spalle la Spagna (24,7%).

Ma il vero punto debole rimane: il sistema formativo che altrove, come in Germania, integra lavoro e studio (dove la disoccupazione giovanile è al 6,8%), qui non funziona. Siamo ancora lontani da quel modello virtuoso, e senza una formazione robusta, questo crollo della disoccupazione giovanile potrebbe rivelarsi più un fuoco di paglia che una svolta strutturale.

Neet e abbandoni: la strada è ancora lunga

Un altro fronte caldo è quello dei Neet, giovani che né studiano né lavorano (ma spesso lavorano in nero). La percentuale scende al 16,1% nel 2023, in diminuzione rispetto all’anno precedente. Ma anche qui, non bisogna farsi illusioni: nonostante la riduzione di quasi 3 punti percentuali, l’Italia è tra i peggiori d’Europa, con valori più alti di Francia, Spagna e, naturalmente, Germania. L’abbandono scolastico segue la stessa dinamica: in calo, ma sempre preoccupante. Più di uno su dieci tra i 18 e i 24 anni lascia la scuola, con il fenomeno più diffuso tra i ragazzi rispetto alle ragazze.

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Laureati: un deficit che pesa

L’aspetto forse più allarmante è la bassa quota di laureati. Nonostante una leggera crescita, solo il 30,6% dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha un titolo di studio terziario. Siamo lontani anni luce dai livelli europei e dai giganti come Francia e Spagna, dove oltre il 50% dei giovani ha una laurea in tasca.

Cosa manca? In Italia, mancano corsi brevi e professionalizzanti. In paesi come la Spagna, questi percorsi rappresentano quasi un terzo dei titoli terziari, mentre qui da noi restano una rarità.

Ma c’è anche un altro problema. In Italia, laurearsi non è più sinonimo di trovare lavoro facilmente. Solo il 74,1% dei laureati triennali riesce a trovare un impiego entro un anno dal conseguimento del titolo, e per i laureati magistrali la percentuale sale appena al 75,7%. Numeri che fanno riflettere, soprattutto se li confrontiamo con le realtà di Paesi come la Germania o i Paesi Bassi, dove i neolaureati sono occupati a ritmi ben superiori al 90%.

Insomma, anche per i giovani più qualificati, la laurea non è la porta dorata che si apre sul mondo del lavoro, ma piuttosto un biglietto d’ingresso in un labirinto di precarietà. E mentre fuori dai confini nazionali il mercato premia i talenti, in Italia la fuga dei cervelli diventa una scelta quasi obbligata​.

Partite Iva in aumento: quando il lavoro autonomo è una scelta obbligata

Dietro l’apparente boom di nuove partite Iva, con 121.542 nuove aperture nel secondo trimestre del 2024 (+2,5% rispetto all’anno precedente), si nasconde una realtà ben diversa.

L’incremento, registrato soprattutto nel Lazio (+11,6%), Friuli Venezia-Giulia (+6,5%) e Campania (+6,1%), non riflette un’ondata di spirito imprenditoriale, ma piuttosto una mancanza di alternative contrattuali e una ricerca di stabilità. Molti italiani si vedono costretti ad aprire una partita Iva per sopperire alla mancanza di contratti stabili, mentre il lavoro autonomo diventa una via obbligata e non una scelta consapevole. Le aree con cali significativi come la Valle d’Aosta (-11,3%) e le Marche (-8,9%) dimostrano che questa tendenza non è uniforme, ma l’effetto di una precarizzazione diffusa del mercato del lavoro.





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